Giorgio Gaber, già quindici anni senza il Signor G

Il primo gennaio del 2003 ci lasciava, con solitario aplomb, l'inventore del Teatro Canzone

Giorgio Gaber  Credit: © Fondazione Giorgio Gaber
1 Gennaio 2018 alle 10:00

«E poi sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi» (Giorgio Gaber)

In quindici anni ne succedono eccome di cose. Giorgio Gaber, ad esempio, in tale lasso di tempo riuscì a passare dalla primordiale «Ciao ti dirò» (1958, primo 45 giri italiano propriamente rock 'n' roll) a «Far Finta di Essere Sani» (1973), uno degli LP più importanti e decisivi della sua discografia, registrato a Milano quando il suo autore era già completamente immerso nell'avventura del Teatro Canzone iniziata tre stagioni prima con la messa in scena de «Il Signor G».

In edicola con Sorrisi

Dal 3 gennaio in edicola con Tv Sorrisi e Canzoni, tre appuntamenti che celebrano Giorgio Gaber:

3 GENNAIO - GIORGIO GABER GLI ANNI '60
Best of inedito con 45 succesi di quel periodo, tutti i suoi capolavori più noti tra cui Non arrossire, Ciao ti dirò, Una fetta di limone, Barbera e Champagne... 
TRIPLO CD €12,90 rivista esclusa

9 GENNAIO - LA MIA GENERAZIONE HA PERSO
Memorabile ritratto musicale della società moderna
€9,90 rivista esclusa

16 GENNAIO - IO NON MI SENTO ITALIANO
L'ultimo album da studio dell' artista
€9,90 rivista esclusa


Quindici anni sono ormai trascorsi anche da quel malinconico primo giorno del 2003 quando colui che all'anagrafe faceva Gaberscik si spense nell'intimità della sua residenza di Montemagno di Camaiore, nella campagna lucchese, lasciandoci tutti quanti più soli e smarriti. Purtroppo la brutta notizia era nell'aria. La malattia incalzava Giorgio da mesi costringendolo a sospendere, al principio del secolo, le repliche teatrali del suo ultimo spettacolo «Un'idiozia conquistata a fatica». Eppure, anche se indebolito nel fisico, Gaber trovò ancora il modo di incidere due eccellenti album in studio («La Mia Generazione Ha Perso»«Io Non Mi Sento Italiano»), i primi dopo tantissimo tempo. Peccato, invece, esserselo perso riflettere su quei temi caldi (internet, globalizzazione, crisi economica, nuovi estremismi, sesso ecc.) che contraddistinguono tuttora gran parte della nostra vita. Sicuramente lui - che contestò con intelligenza i grandi miti sociali degli anni '70 e '80 - non si sarebbe tirato indietro.

Da questo punto di vista sarebbe stato non interessante, ma interessantissimo sentirlo parlare del corpo umano (sua fissa da sempre contrapposta all'impalpabilità del pensiero psicologico) in un'epoca in cui la virtualità sembra aver preso definitivamente il sopravvento. Sospettiamo che la sua verace antipatia nei confronti delle omologazioni sarebbe stata messa a dura prova dalle sciocchezze propinateci dai social network. In modo perentorio si sarebbe manifestato il suo diritto di vivere il presente in un'epoca in cui i temi nostalgici sono all'ordine del giorno giusto per levarci un po' di stress. Gaber, in definitiva, avrebbe continuato a fare il Gaber. Lui che è sempre stato un po' giullare, un po' moralista/coscienza critica di questo nostro strano Paese. Proprio lui che si mosse sempre con agilità tra il rifiuto del conformismo e l'essenzialità del linguaggio artistico: una melodia immediata qui, una battuta pungente là, un escamotage mimico a condire il tutto.

Tortuosa e piena di curve la carriera del caro Signor G perché questa, in realtà, è anche la scansione temporale dell'esistenza di ognuno di noi. Arguta la scelta dei suoi collaboratori, sempre pochi e fidati (prima Umberto Simonetta e poi l'alter ego Sandro Luporini). Storiche, invece, le sue amicizie con Enzo Jannacci, Luigi Tenco e Adriano Celentano in una sorta di ruspante alleanza rock nel nome di Elvis. Dediti alla popolarità di massa i suoi frenetici anni '60 con ben quattro Sanremo (1961: «Benzina e cerini»; 1964: «Così felice»; 1966: «Mai, mai, mai Valentina»; 1967: «...E allora dai!»), tanta televisione in bianco e nero sul primo canale, più l'incontro, romantico ed eterno, con la sua futura moglie Ombretta Colli, ovvero la donna più importante di tutte. Un decennio pop e di grandi ripensamenti in vista di cosa sarà il futuro. Un'epoca felice, ma con l'intercetto cruciale del Sessantotto e di ogni sua singola ambiguità. Tutto ciò troverete nell'inedito Best Of «Gli Anni '60», raccoltona di ben 45 canzoni tra le quali non potevano mancare evergreen come «Non arrossire» (il Gaber cantautore), la stessa «Ciao ti dirò», «Una fetta di limone» (incisa con Jannacci sotto la sigla I Due Corsari) e «Barbera e Champagne». Tempo una strabiliante tournée con Mina datata 1969/'70 e cambierà tutto. Dopo arriverà il ricercatissimo Teatro Canzone. All'inizio sale semivuote con al massimo cento spettatori delusi che Gaber non proponesse «La ballata del Cerruti» o «Torpedo blu»; al termine degli anni '90 si riveleranno milioni gli italiani che avranno visto almeno una volta il Gaberscik impegnato nei suoi spettacoli empatici dove il brano musicale si fondeva nel monologo e dove il gesto diventava complemento del verbo. Dove si usciva più arrichiti di come si era entrati.

Già più impegnativi, invece, i suoi due ultimi album da studio, ripubblicati anch'essi da Sorrisi. «La Mia Generazione Ha Perso», arrivato a soprpresa nella primavera del 2001, ha un po' le stigmate dell'evento. Gaber non produceva musica, esclusivamente musica, fin da «Piccoli Spostamenti Del Cuore» (1987) e Beppe Quirici, il produttore del progetto scomparso anche lui troppo presto, ha fama di grande e giocoso sonorizzatore. Ne esce però un disco cupo. Pessimista fino ad un certo punto, sentimentale («Quando sarò capace di amare»), per certi versi severo. Risolutore in attesa di nuove partenze che, purtroppo, non avveranno mai. I brani sono eccelsi («Si può» risale addirittura al '76 ma viene riattualizzata dovere; «Il conformista» e la titletrack non lasciano scampo, ma «Destra-Sinistra» riaccende di botto la miccia dell'ironia) e il pubblico premia l'artista, nuovamente visibile al di fuori dei teatri, portandolo dritto al primo posto in classifica.

Volerà alto anche «Io Non Mi Sento Italiano» (2003), ma qui la festa è rovinata dal fatto che Giorgio da almeno venti giorni non è più tra noi. L'album è ancora più scattante del suo predecessore perché Gaber sente l'impulso di scriverlo con tempistiche brevissime e segrete. La dimensione pubblica (tanti e calorosi gli incontri nelle Università italiane in quel fatidico primo semestre del 2001, senza contare la clamorosa visita in TV all'amico Celentano) gli dona l'ispirazione per buttare giù cinque tracce inedite («Il tutto è falso», «Non insegnate ai bambini», «I mostri che abbiamo dentro», «Il corrotto» e «La parola io») assieme all'arguto Luporini. Più ovviamente la sferzante invettiva che dà al titolo al disco e che viene mal interpretata dai benpensanti. Si parla addirittura di patriottismo al contrario e beffarda risuona la risata dalle parti del quartiere Giambellino. Pazienza: tra i classici recuperati ci sta pure «L'illogica allegria» oltre al monologo immenso di «Se ci fosse un uomo» e la qualità, come al solito, resta fuori discussione. Fine delle trasmissioni. Magari al "noi" citato al principio, Gaber non ci è mai arrivato del tutto pur sforzandosi non poco nel corso dei suoi quasi 64 anni. Eppure sono tanti quelli che nel 2018 prediligono ancora citarlo, adoperarlo ed amarlo per uscire dal terribile labirinto dell'ego.

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