Pino Donaggio: «Devo ringraziare Mina e… un vaporetto»

Da cantante a re delle colonne sonore di Hollywood: «Tutto iniziò in un’alba di nebbia a Venezia...»

Pino Donaggio al Festival di Snaremo del 1965
26 Novembre 2020 alle 09:15

Della sua canzone più celebre, “Io che non vivo (senza te)”, esistono oltre 200 versioni che hanno venduto 80 milioni di copie. Tra le sue colonne sonore, più di 230, figurano titoli come “Carrie - Lo sguardo di Satana” di Brian De Palma (la prima delle sette che ha firmato per il maestro americano), “Piraña” di Joe Dante, “Non ci resta che piangere” di Massimo Troisi, “L’arcano incantatore” di Pupi Avati, ma anche fiction popolari come “Don Matteo” e “Il maresciallo Rocca 3”.

Pino Donaggio, però, 79 anni il 24 novembre, non vive la sua Venezia come un luogo dove godersi i successi di una carriera straordinaria (per cui, nel 2019, ha vinto il Premio Tenco): dal suo studio affacciato sulla Basilica della Salute continua a fare musica. «Purtroppo con la pandemia non è facile portare in studio un’orchestra di 52 persone, ma sto lavorando ai nuovi film di alcuni registi italiani» ci dice «e quest’anno è uscito il disco “Nei cinema e nella classica”, dove per la prima volta dirigo I Solisti Veneti, l’orchestra con cui ho cominciato».

Viene da una famiglia di musicisti. Il suo destino era scritto.
«Mio nonno era musicista, mio zio primo flauto al Teatro La Fenice, altri due fratelli di mio padre suonavano e mio papà aveva una sua orchestra che si esibiva nei locali. Con lui, all’inizio della carriera, c’era anche il giovane Sergio Endrigo. Sono entrato in Conservatorio da bambino per studiare violino. Il mio sogno era quello di fare il solista, girare il mondo facendo concerti. Non immaginavo che avrei cantato e poi composto colonne sonore».

Come è successo?
«Cantai a una festa e tutte le ragazzine volevano che cantassi ancora. Così ci riprovai con l’orchestra di mio padre e ricevetti altri applausi, ma lui mi diceva: “Ti applaudono perché sei mio figlio”».

Che cosa ha fatto per farlo ricredere?
«Andavo a Milano per studiare violino. Ne approfittai per portare le mie canzoni alle Edizioni Curci, che avevano lanciato Modugno. Mi misero subito sotto contratto».

Addio violino...
«Nient’affatto. Non pensavo ancora di fare il cantante. Come violinista avevo talento: Claudio Abbado mi aveva chiesto di andare a suonare con I Solisti di Milano. Poi il destino...».

Che nel suo caso si chiama Mina.
«Sì. Alla Curci mi avevano fatto un contratto come cantante, autore, compositore e arrangiatore. Avevo inciso i primi 45 giri, ma pensavo ancora che fosse una prova. Finché, nel 1961, scrissi “Come sinfonia” per Mina. Il brano le piaceva, ma al Festival di Sanremo di quell’anno aveva già altre due canzoni: “Io amo, tu ami” e “Le mille bolle blu”. Così insistette perché la cantassi io. Avevo 19 anni e andai al Festival. Non vinsi, ma il brano andò in vetta alla classifica delle vendite. Il successo fu immediato. Avevo detto al mio maestro che sarei tornato dopo una settimana: mi presentai dopo un mese e lui non mi volle più in classe. Non mi ha parlato per vent’anni, si sentiva tradito».

La vita, però, gliel’ha cambiata “Io che non vivo (senza te)”.
«Senza dubbio. La presentai nel 1965 a Sanremo. Alla cantante inglese Dusty Springfield, anche lei in gara, piacque al punto che ne fece una versione in inglese: “You don’t have to say you love me”. Fu un successo planetario. Nel 1970 perfino Elvis Presley volle farne una sua versione. Quando lo seppi avevo i brividi: fin da ragazzino lo imitavo cantando in un inglese maccheronico!».

Quel brano ha venduto 80 milioni di copie. Che effetto le fa?
«La soddisfazione maggiore è che una melodia scritta a casa mia, sul mio pianoforte e dedicata alla mia ragazza di allora, che poi è diventata mia moglie, abbia unito così tante persone nel mondo. Nel 2004 la rivista Rolling Stone l’ha inserita tra le “500 canzoni di sempre”: non c’era “Nel blu dipinto di blu”, non c’era “Quando quando quando”, ma la mia c’era».


Il suo ultimo album solista è del 1976. A quel punto dominavano i cantautori “impegnati”.
«Non tutti sanno, però, che quel disco conteneva la canzone “Mario”. La mia casa discografica era fallita, così dissi a Enzo Jannacci: “Falla tu”. È diventata una delle sue canzoni più amate».

Intanto, nel 1973, aveva debuttato come autore per il cinema.
«Una storia assurda. Tornavo da una serata. Erano le 6 di mattina e il produttore Ugo Mariotti mi notò, da solo su un vaporetto che tagliava la nebbia. Stava lavorando a un film parapsicologico e si convinse che quell’immagine gli fosse stata mandata dall’Aldilà. Il film era “A Venezia... un dicembre rosso shocking”, che fu un successo, così come la mia colonna sonora».

Tanto che Brian De Palma le chiese di musicare “Carrie - Lo sguardo di Satana”.
«Era morto da poco Bernard Herrmann (il compositore di Alfred Hitchcock, ndr) e Brian non voleva i soliti musicisti di Hollywood. Un suo amico gli fece sentire quella mia colonna sonora e scattò la scintilla. Mi chiamò il montatore Paul Hirsch, che parlava italiano e che poco tempo dopo avrebbe vinto l’Oscar per “Guerre stellari”. Allora non parlavo una parola d’inglese, ma mi sono ricordato di mia madre che diceva: “Butite nel mar grando” (“Buttati nel mare grande”, in veneto, ndr). Mi sono buttato. Con Brian c’è stata affinità fin dall’inizio. Io capivo che musica voleva e me ne tornavo a Venezia. Lui sentiva la musica solo in sala d’incisione».

“Carrie” fu un successo, ma per il film successivo De Palma non la chiamò. Ci restò male?
«Ma no! Per “Fury” prese John Williams, il mio idolo. Uno che può passare da “Guerre stellari” a “Il grande freddo”. Grazie a lui ho capito che deve essere il film a suggerirti la musica e non tu a portare la tua musica nel film. Oggi se non ho il film finito non scrivo più».

Ha mai detto di no?
«Qualche volta, ma i registi si offendono, come se fosse un giudizio sul loro valore. Altre volte, invece, non ho potuto rifiutare: erano film di amici, come si fa a dire di no a un amico?».

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