Icaro e il folle volo verso il sole

Figlio dell’inventore Dedalo, Icaro è il giovane che ignora i moniti paterni e si alza in volo con le ali fabbricate dal genitore. Si avvicina troppo al sole e muore. Così come infinite sono le piroette di Icaro mentre si libra nel cielo, infinite sono le riletture che il mito ha percorso nei secoli

Icaro e Dedalo di Charles Paul Landon, 1799. Musée des Beaux-Arts et de la Dentelle d’Alençon

Icaro e Dedalo di Charles Paul Landon, 1799. Musée des Beaux-Arts et de la Dentelle d’Alençon

Foto: Pubblico dominio

«La voce del mio cor per l’aria sento: / «Ove mi porti, temerario? china, / che raro è senza duol tropp’ardimento»; / «Non temer (respond’io) l’alta ruina. / Fendi sicur le nubi, e muor contento: / s’il ciel sì illustre morte ne destina». Nel 1585 il frate e filosofo Giordano Bruno, che quindici anni più tardi sarebbe stato condannato ad ardere vivo in Campo de’ Fiori, pubblica un lucido e splendido sonetto all’interno dell’opera De gli eroici furori. L’intero componimento è dedicato a Icaro, il figlio dell’inventore ateniese Dedalo, e Giordano Bruno vi condensa il tentennamento dello spirito, il dubbio tra la paura di slanciarsi verso l’alto e il coraggio di ascendere al cielo, tra le nuvole.

Pittori, scrittori e filosofi del XVI secolo dedicano particolare attenzione al mito di Icaro, al suo folle volo e alla sua caduta, all’«ardimento» e all’«alta ruina»: Iacopo Sannazzaro, Ludovico Ariosto, Bruno, Bruegel il Vecchio sono soltanto alcuni tra i molti che, in un secolo in cui ci s’interroga sulla natura dell’uomo e sui suoi limiti, tornano indietro nel tempo e fanno di Icaro il simbolo della pericolosa curiosità dell’uomo e della sua possibilità di caderne vittima. Ma chi è Icaro, il giovane che morì perché si avvicinò troppo al sole, e per quale ragione ha avuto un simile successo nella storia dell’umanità? A quali letture si presta la sua triste vicenda?

Dedalo e Icaro di Lord Frederic Leighton, 1869. Collezione privata

Dedalo e Icaro di Lord Frederic Leighton, 1869. Collezione privata

Foto: Pubblico dominio

La fuga dal labirinto e il volo

Per capire il folle volo di Icaro, è necessario fare un passo indietro e addentrarsi nel labirinto del Minotauro, figlio della regina cretese Pasifae e di un bellissimo toro mandato da Poseidone. È lo stesso Dedalo, geniale inventore fuggito da Atene e accolto da Minosse, a progettarlo, dopo aver creato pure la vacca di legno in cui Pasifae aveva atteso la monta del toro.

Il Minotauro ora è morto, ucciso da Teseo, che ha subito lasciato l’isola di Creta assieme ad Arianna. Il labirinto accoglie due nuovi ospiti: Dedalo e Icaro, imprigionati nei meandri oscuri da Minosse, che vuole punire Dedalo per aver aiutato Arianna e Teseo a fuggire, o che forse teme che l’inventore possa svelare ad altri i dettagli della sua imponente e inaudita costruzione. Tuttavia Dedalo non è senza risorse: prima di giungere a Creta ha già ideato la ruota e modellato statue più belle degli esseri umani. Capisce che non potrà ritrovare la via d’uscita dal labirinto e volge gli occhi al cielo: sarà quello l’unico modo per scappare. Con alcune piume e della cera fabbrica un paio di ali per sé e un paio per il figlio Icaro che nel frattempo, racconta Ovidio nelle Metamorfosi, lo distrae e gioca affettuosamente con lui.

Una volta pronta la nuova invenzione, Dedalo ammonisce il figlio, gli raccomanda di non volare né troppo in basso né troppo in alto. Icaro annuisce e, spinto da Dedalo, si lancia nell’immensità azzurra del cielo. Le ali si tendono, sospinte dal vento. Da sotto i contadini e i pastori osservano i due, ormai simili a dei. Eppure non sono divinità, rimangono pur sempre esseri umani. E quando Icaro, curioso e incurante dei consigli paterni, ebbro del volo, si accosta troppo al sole, la cera delle ali si scioglie. Una dopo l’altra le piume si staccano dalle sue spalle. Dedalo urla. Troppo tardi. Icaro precipita in mare, mentre il padre assiste impotente, ormai pentito del proprio ingegno. Affranto, Dedalo seppellisce il figlio e poi continua la fuga a Camico, in Sicilia, dove Minosse lo raggiunge e dove, sembra, perisce per mano di genti locali.

Il volo di Icaro di Jacob Peter Gowy, 1635-37. Museo del Prado, Madrid

Il volo di Icaro di Jacob Peter Gowy, 1635-37. Museo del Prado, Madrid

Foto: Pubblico dominio

Il padre e l’equilibrio

La morte in seguito al volo non è l’unica variante di questo mito, accennato in un frammento dei Cretesi di Euripide e poi ripreso soprattutto in ambito ellenistico e romano. Secondo Apollodoro (II secolo a.C.) e Diodoro Siculo (I secolo a.C.), padre e figlio fuggono via mare. Ancora una volta Dedalo raccomanda a Icaro la prudenza ma lui, «trascinato dall’entusiasmo, dimentic[a] le raccomandazioni paterne» e si slancia fuori dall’imbarcazione, trovando la morte. Sarà Eracle a scorgerne il cadavere nell’acqua e a depositarlo sulla spiaggia.

In mare o in cielo, Icaro va incontro al destino fatale per non aver prestato ascolto al padre: perché, come scrive Ovidio, «abbandonò la sua guida». Icaro diviene quindi il simbolo della trasgressione giovanile, dell’orgoglio che spinge i ragazzi a sentirsi adulti ma senza esperienza. Ecco il primo potente significato archetipico del mito, che mette in guardia circa i pericoli della superbia.

Tuttavia la triste storia di Icaro racconta anche altro: la curiosità, l’eterna tensione dell’uomo a superare sé stesso, il desiderio di volare oltre la propria condizione. Come l'Odisseo cantato da Dante, Icaro è l’uomo che oltrepassa i limiti inseguendo la conoscenza. Come Fetonte, che ruba il carro del Sole suo padre finendo per avvicinarsi troppo alla terra e bruciarla, Icaro è colui che pecca di presunzione, di hybris. Come Leonardo da Vinci, Icaro è l’uomo alato che s’innalza dalla pesante terra e si libra nell’aria. Terra, aria, fuoco, acqua: Icaro ascende e cade. La terra lo limita, l’aria gli dà l’ebbrezza, il fuoco lo scotta e l’acqua l’uccide. Sarà sì destinato alla fama eterna, ma la sua vita si spegne troppo presto.

Icaro rappresenta adesso il contrasto tra l’ambizione e la misura, tra la curiosità eccessiva e la moderazione. Il concetto greco del kata metron, “secondo misura”, come cammino per la serenità, torna nella storia del giovane figlio di Dedalo in epoca romana, grazie a Virgilio e a Ovidio. La mediocritasaurea, secondo Orazio –, ovvero l’equilibrio della via di mezzo, traspare appunto da alcune riscritture romane. Nelle Metamorfosi di Ovidio il monito è evidente. «Vola a mezza altezza, Icaro, mi raccomando, in modo che l’umidità non appesantisca le penne se vai troppo basso, e il calore non le bruci se vai troppo alto. Vola tra l’una e l’altro, ti avverto», dice Dedalo al figlio. La fuga, quindi la salvezza, e da qui la felicità, stanno nel mezzo, né troppo in alto né troppo in basso. L’uomo deve riconoscere la propria condizione e attenersi a quella, senza sfidare gli dèi o la natura.

Il pianto per Icaro di Herbert James Draper, 1898. Tate Museum, Londra

Il pianto per Icaro di Herbert James Draper, 1898. Tate Museum, Londra

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I molti voli d’Icaro

Tale insegnamento si tramanda dal mondo romano a quello medievale, dove abbondano le interpretazioni moralizzanti dei miti greci e continuano i moniti contro la tracotanza del ragazzo imprudente. Imprudente anche perché immemore dei consigli paterni. E tuttora è forse questa rilettura a imporsi sulle altre, nella quotidianità come nella scuola. Lo sottolinea con acume Dario Fo, che nel brillante monologo Dedalo e Icaro (1977) critica tale approccio volto a «mettere soggezione e a terrorizzare i giovani». Il premio Nobel proporrà di Icaro una percezione diversa, libera, rivoluzionaria. Un’altra visione ancora, quindi, che si appoggia a Luciano di Samosata (II secolo d.C.) per scorgere in Icaro un giovane deciso a vivere i propri sogni e a non lasciarsi ingabbiare dalle paure.

Man mano, con il passare dei secoli, s’impone la scelta di Icaro, l’intenzionalità del suo spingersi in alto. E la fortuna del figlio di Dedalo non si esaurisce in un solo battito d’ali. Perché, quando dal Medioevo approda al Rinascimento e poi alla modernità, la sua vicenda si presta a un’ulteriore e differente rilettura, l’anelito poetico al volo. In un’affascinante allegoria, l’artista veste i panni di Icaro stesso, che con l’immaginazione si libra in alto alla ricerca del bello e del sublime. Indossa le fragili ali dell’ispirazione, attratto sia dal sole sia dalle profondità del mare. Come canterà Baudelaire nel meraviglioso sonetto Lamenti di un Icaro (1868): «Sento che la mia ala si spezza / sotto non so che occhio di fuoco! / e arso dall’amore del bello, / non avrò l’onore supremo / di dare il mio nome all’abisso / che mi servirà da tomba».

Un unico mito, quindi, un’unica azione, un unico slancio nel vuoto per innumerevoli e infinite letture. Ma, del resto, chi non ha mai sognato di spiccare il volo come un uccello e, anche solo per un istante, contemplare libero dall’alto la terra greve, le preoccupazioni e gli affanni?

Icarus, di Henri Matisse, 1943

Icarus, di Henri Matisse, 1943

Foto: Cordon Press

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