La storia del maialino coraggioso (che però non potrà raccontare a nessuno)

I maiali morti in Romagna e quelli che si sono «salvati» ci raccontano della nostra insopportabile incoerenza. E che il coraggio non basta
Maiali morti romagna
Selene Magnolia / Essere Animali 

La foto che vedete qui sopra è probabilmente l'unica che vedrete di due maiali di allevamento liberi di muoversi, che si toccano, si salutano, si annusano come farebbero se fossero nati in una cascina. Una fortuna rara, visto che i circa 9 milioni di maiali allevati in Italia nella stragrande maggioranza nascono e vivono in allevamenti intensivi. E muoiono senza mai aver visto il cielo. Le scrofe sono tenute in gabbia grandi poco di più della loro misura, una vicina all'altra, ammassate ma irrimediabilmente lontane. Eppure sono gli stessi maiali che potete vedere in alcuni video sui social, quelli che, quando vivono liberi, corrono incontro agli umani come fossero cani, giocano, si innamorano tra di loro, dormono vicini l'uno all'altro.

Questa fotografia ce l'ha data in gentile concessione Selene Magnolia che con il team investigativo di Essere Animali si è fatta un giro tra gli allevamenti di maiali della Romagna dopo le alluvioni. Il risultato della loro esperienza è un articolo che ho faticosamente deciso di leggere cercando di recuperare un po' di coraggio. Non ero riuscita a leggere nemmeno quelli precedenti, quelli in cui si raccontava degli allevamenti allagati e degli allevatori che chiedevano aiuto per i propri maiali minacciati dalla piena. Non li avevo letti perché c'era una voce che gridava dentro di me dicendo più o meno: ma dei maiali interessa davvero qualcosa a qualcuno oltre all'indotto economico?

Non li ho letti perché quello che non avrei mai voluto trovare lì dentro era anche solo un vago cenno di dispiacere per i maiali morti annegati. Non potevo sentire parlare di «salvare i maiali», perché i maiali che volevano «salvare» sono animali che nascono per essere ingrassati il più velocemente possibile ed essere uccisi senza che nessuno si sia mai preoccupato della loro «salvezza». E senza che nessuno si preoccupi di un tipo di allevamento - quello intensivo - che sta contribuendo al dissesto ambientale e climatico del pianeta, che continua imperterrito a produrre emissioni (secondo la FAO, il 15% delle emissioni annue di gas serra dovute agli esseri umani) e che ci rende via via più disumani.

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Quella voce dentro di me pretendeva insomma un po' di coerenza. Così nello stesso modo non mi stupisce quello che sta succedendo ora e che le associazioni animaliste stanno denunciando: i maiali che sono stati così coraggiosi da salvarsi dalla piena, trovando un riparo dall'acqua, ora tornano da dove sono venuti, in gabbia.

Come il maialino di cui parla l'Associazione Meta di Parma, così coraggioso da nuotare, salvarsi dall'acqua, e come in una favola arrivare in un giardino, giocare con gli umani, ma che ora prontamente viene riportato nel suo allevamento. Per lui l'associazione ha aperto una petizione chiedendo di «salvarlo». Di nuovo torna la parola «salvare» usata sia dagli allevatori che dalle associazioni con accezione decisamente diversa. Ma come facciamo a «salvare» chi non ha una vita? Perché usiamo la parola salvare visto che non trattiamo questi animali come «vita», ma solo come «prodotto»? E mi chiedo anche: di cosa ci stupiamo? Di cosa parliamo se non siamo pronti a cambiare le cose, e se non siamo pronti a smettere subito di mangiare carne che viene dagli allevamenti intensivi?

E così, con il cuore sofferente per le migliaia di maiali morti in questo disastro, mi dico: sono solo morti qualche giorno prima di quello a cui erano destinati. Magari qualcuno ha però provato un minuto di libertà che nella sua vita disgraziata di mero «prodotto», non avrebbe mai provato, ha nuotato, si è sentito coraggioso, ha giocato in un giardino, e ha pure visto il cielo.