Segni, vandalismi e graffiti: i muri che parlano di noi

Chi incide il suo nome sui monumenti, chi firma a casaccio la Galleria, e chi invece, tanti anni fa, ha cominciato a colorare le periferie: perché tra loro non si somigliano
par condicio
Pino Corrias

Questo articolo è pubblicato sul numero 34-35 di Vanity Fair in edicola fino al 29 agosto 2023.

Differenti sanno essere i muri, le intenzioni di chi li usa, gli esiti. Cominciamo dai peggiori. Come tanti sventati fidanzati italiani, l’altro giorno una turista adulta francese ha inciso le sue iniziali e quelle del compagno sul settimo anello della Torre di Pisa. Presa per un orecchio, le hanno detto: ma sai dove sei, sai cosa hai fatto? E quando l’hanno denunciata per danneggiamento è cascata dalle nuvole, poverina, non sapeva, non immaginava. Lo stesso è capitato a una coppia di inglesi che sulle tormentate pietre del Colosseo hanno scavato la data, i loro nomi per intero, e non contenti si sono filmati per vantarsene nel mondo parallelo dei social. Pure peggio hanno fatto tre bamba milanesi che non avendo niente da dire, l’hanno detto, anzi scritto, salendo a venti metri di altezza sul cornicione della Galleria Vittorio Emanuele, per disegnare, davanti al Duomo di Milano, la loro firma con vernice spray verde e nera. Ma lo hanno fatto in forma talmente sgangherata da renderla uno sgorbio senza senso. Se il loro scopo era dire io esisto, sono riusciti benissimo a comunicarci il contrario.
Tanti anni fa, da questa parte del mondo, sono nati i Ragazzi Aerosol. Con bombolette spray, dipingevano di notte i muri delle periferie, li riempivano di colori, di disegni dinamici, a contrasto del bianco e nero che circondava le loro e le nostre vite. Erano squilli nel silenzio. Segnali metropolitani che nella stagione successiva comparvero sui treni, considerati dei muri mobili, specialmente quelli delle metropolitane che ieri come oggi trasportano milioni di passeggeri pendolari e le loro vite standard.
Una volta, fine anni Novanta, sono sceso con loro dentro la pancia di Milano, i labirinti di gallerie nere come l’inchiostro, per raccontare il loro rito di writer celebrato nelle notti mordi e fuggi, spesso inseguiti dalla Polfer, la polizia ferroviaria. Erano i cosiddetti B-Boys, titolari di una piccola, ma visibilissima rivolta contro lo sbadiglio grigio del cielo e le spalle grigie delle città. Venivano dall’underground americano, specialmente newyorchese. La loro evoluzione – passata anche per schiere di imbrattatori cialtroni e molesti – ha generato l’arte oggi più bella, quella degli enormi murales che riempiono – con un intero alfabeto di colori, di forme, di racconti – i muri anonimi di Napoli, Roma, Milano, Palermo, di decine di borghi, diventando «arte negli spazi pubblici», istanti visionari, capaci di fermare il passante e lo sguardo, suggerire un’idea nuova, inaspettata. Compresa quella capovolta degli attivisti di Ultima Generazione che usano violare (con vernice lavabile) i muri, anche dei monumenti, come segnale d’allarme per denunciare chi imbratta e avvelena il Pianeta. Firmano in prima persona per davvero, lasciandosi identificare a testimonianza della loro (e della nostra) protesta in nome della vita. Non sono turisti in cerca di identità. Non sono vandali narcisi dell’io esisto. Il loro messaggio è identico a quello dei «poeti dei muri»: lasciateci esistere, lasciateci resistere.

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