Giorgio Pasotti: «Chi ha detto che un eroe non può essere fragile?»

L'8 febbraio torna su RaiUno con Lea - Un nuovo giorno, storia di medici, d'amore e rinascita, di una professione che richiede sacrificio e cuore. «In tv, c'è bisogno di verità. Basta personaggi fasulli e racconti edulcorati»
Giorgio Pasotti «Chi ha detto che un eroe non può essere fragile»
Mauro Sostini

Lea - Un nuovo giorno avrebbe potuto essere ovunque: la storia di una donna d’ogni dove e d’ogni tempo. Ma, «sarebbe stato anacronistico decidere di fare qualcosa che non possedesse legami con l’attualità, con i due anni che abbiamo vissuto. Sarebbe stato fuorviante». Giorgio Pasotti, che della fiction Rai, al via nella prima serata di martedì 8 febbraio, è il coprotagonista, lo dice con semplicità, senza la pretesa di ricamare la propria filippica sul tessuto disastrato dell’Italia post-Covid. «Chi più, chi meno», spiega, «Si è trasportati tutti da quello che abbiamo visto negli ultimi ventiquattro mesi. Lea (prodotta da Banijay Studios Italy, ndr) mi è stata proposta a cavallo fra il primissimo lockdown e la conseguente riapertura, ma il progetto è cambiato da allora, schiavo e figlio di questa follia che ci ha travolti. Accade spesso con queste produzioni, si inizia in un modo per proseguire diversamente». Come, è difficile a spiegarsi. Lea non tratta di Coronavirus. «Non abbiamo voluto appesantire un pubblico già provato dalla pandemia, non come la prima stagione almeno». Eppure, orbita attorno agli ospedali, ai sacrifici estremi del personale medico-sanitario. Racconta di notti insonni, di vite sospese per salvare quelle d’altri. Lea è la storia di una coppia, di un primario e di un’infermiera, rotta dalla morte perinatale del figlio che avrebbe voluto. Ed è la storia di eroi «estremamente umani».

Non è ossimorico definire umano un eroe?
«No. Marco Colomba, il primario che interpreto, mi ha affascinato per la fragilità estrema che ha saputo emanare. Impera un’idea comune, un’idea che vuole che i medici siano eroi a tutto tondo, dentro e fuori il servizio. È necessario, invece, normalizzare la figura di queste persone, di eroi che sono tali nonostante le proprie fragilità, di eroi resi umani da queste loro fragilità. I medici hanno a che fare con i problemi di tutti, con difficoltà interne alle mura domestiche. Diversamente da altri e da altre professioni, devono, però, riuscire a tenere lontano tutto questo».

E per Colomba e Lea (Anna Valle), sua ex moglie, questa difficoltà è più marcata.
«Hanno perso un figlio e lavorano, entrambi, nel reparto pediatrico dell’Ospedale di Ferrara. Una morte è sempre una morte, ma nel caso dei bambini c’è qualcosa di più, la sensazione che sia innaturale».

Non accade spesso che se ne parli in televisione, poi.
«Il racconto televisivo sta cambiando. Le nuove serie, provenienti da ogni parte del pianeta e accessibili grazie alle piattaforme streaming, hanno portato ogni mezzo ad alzare l’asticella, e anche noi ci siamo dovuti adeguare. Finalmente, aggiungerei. Stiamo scardinando i tabù, le cose di cui non si poteva parlare. E credo che questo, oggi, debba fare la serialità: parlare di attualità, senza filtri. C’è bisogno di personaggi con i quali il pubblico possa empatizzare, non c’è più spazio per personaggi fasulli e storie edulcorate».

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Dunque, la televisione può ancora rivestire un ruolo civile?
«Sì, a patto che si recuperino generi cinematografici completamente abbandonati, linguaggi dimenticati. Dobbiamo sperimentare. Portare al pubblico storie attuali. Ci siamo affidati alla commedia per troppi anni, oggi credo si noti che la comicità pura è mal digerita. Chi vuole ridere ha bisogno di ridere sì, ma su qualcosa che abbia una sua profondità».

Da regista, è questo che sta facendo?
«Ad oggi, ho fatto due film per il cinema e sto preparando il terzo. Dove questo terzo possa essere visto, non lo so. Abbi Fede, a causa del Coronavirus, non ha potuto debuttare in sala. Il tema centrale, però, sarà il tema del lavoro, perché credo sia oggi “IL” tema. Abbiamo tutti imparato, con la pandemia, come la professione sia molto difficile da ottenere e molto difficile da trattenere. Si deve essere sempre più competitivi, sempre più ambiziosi: bisogna riuscire ad arrivare, anche sgomitando. Il film tratterà il tema a tutto tondo. Che tu esca dall’università a pieni voti, che tu sia un cinquantenne che vuole rientrare, un quarantenne che vuole cambiare, è sempre difficile».

Quanto è stato difficile, allora, interpretare un professionista come Marco Colomba nel momento storico che stiamo vivendo?
« Io sono di Bergamo, sono stato incollato alla televisione per due anni, seguendo quasi ogni intervista di medici e paramedici. Quando mi sono trovato ad interpretare un medico, ho fatto tesoro di quel che ho visto e vissuto. Senza contare, poi, che una volta finito il liceo ero certo avrei fatto il medico».

Prego?
«La branca che volevo abbracciare è quella della medicina sportiva, ma sempre di medicina si tratta. Lea è stato un tuffo in quello che poteva essere la mia vita, uno sliding doors. Diversamente da tanti, non trovo respingente l’ospedale. È un luogo di tragedie e di morte, ma è al contempo un luogo di rinascita e di speranza. Mi piace pensare che i medici siano portatori di emozioni sane».

E la fiction, anche questa è portatrice di emozioni sane?
«Lea restituisce la difficoltà della professione medica, ma, al contempo, restituisce la speranza di poter guarire, letteralmente e metaforicamente. Possono guarire i pazienti, i bambini nel nostro caso, e possono guarire i nostri personaggi».

Da genitore, però, quanto è stato complicato fronteggiare i temi di cui tratta Lea?
«Quando hai a che fare con i bambini, ogni cosa è più toccante. Per me, padre di una bambina di dodici anni, vedere e dover mettere in scena storie difficili, di bambini che sono stati meno fortunati di mia figlia, è stato molto emozionante. Si impara a non dare nulla per scontato».

Ha detto di essersi immaginato medico. Com’è diventato attore?
«Nel mio caso, il cambio di direzione è stato improvviso e, soprattutto, inaspettato. Sono testimone di quanta verità ci sia nella frase di John Lennon, “La vita è ciò che ti accade mentre stai realizzando i tuoi progetti”. Ero immerso in una sorte di missione, che sapevo sarebbe durata dieci anni. Durante l’università, mi è stato offerto di fare un film. Poi, ne è venuto un secondo, un terzo. Ho portato a termine la mia laurea breve in medicina, ma non ho più avuto tempo di ragionarci. Ho scoperto una professione che sapeva darmi adrenalina, emozione».

Mai avuto un ripensamento?
«No, mai. Non le nego che potrebbe succedere. Ho sempre fatto nella vita ciò che mi piaceva. Perciò, se domani dovessi svegliarmi e scoprire che questa mia passione si è esaurita, non esiterei un attimo a cambiare carriera».

E cosa farebbe?
«Non saprei, per ora sento ancora un fuoco ardere. Sento amore per la recitazione, per la scrittura, per la regia, che mi ha portato a scoprire un lato nuovo del mestiere».

Mestiere che, ad oggi, sembra cambiare. Sopravvivranno i cinema?
«Purtroppo, è molto probabile. Io sono un nostalgico della sala, ma ad essere obiettivi l’offerta che viene fatta dalle piattaforme è un’offerta varia, di qualità, pensata per avere un costo bassissimo. Con due biglietti del cinema, ci si può assicurare un anno di abbonamento ad una piattaforma. Ciò detto, la sala è magia, è un luogo dove regnano sovrani l’immaginazione e i sogni. Ha un che di sacro, e sarà una grande sfida per chi fa cinema pensare a titoli che siano esclusivi, curiosi, che convincano la gente ad uscire di casa».

La pandemia, poi, ha messo in luce la fragilità del luogo, del settore dello spettacolo, la precarietà di chi ci lavora.
«È un problema grave, gravissimo. Potrei parlarne per ore. Io sono anche direttore artistico di un teatro stabile, quello d’Abruzzo. Ho avuto come primo pensiero quello di supportare le compagnie teatrali a rischio fallimento, cosa cui lo Stato non ha pensato. Mi auguro, quindi, che il governo, e non solo il governo, capisca quanto importante sia la cultura. Se la pandemia ha avuto un merito, è stato quello di dimostrare la centralità di spettacolo e luoghi di cultura».