Lo street artist Rebor e la dislessia: «Mi ha insegnato a danzare sulle difficoltà»
«È nella difficoltà che si sviluppa la creatività». Me lo dice al telefono, sorridendo, Marco, in un caldo pomeriggio di ottobre. La sua voce è argentina, brilla come il raggio di sole che passa dalla mia finestra.
Marco è Marco Abrate, in arte Rebor, un giovanissimo street artist - classe 1996 -, che dai graffiti lasciati sui muri della provincia di Torino è passato alle installazioni con un cuore e una testa. Rosa, ovviamente.
«Creo per le strade della città queste installazioni rosa shocking, un po’ per attirare l’attenzione e un po’ perché voglio lanciare delle provocazioni, che facciano riflettere, ma intrise di speranza e di ottimismo».
La prima che fece parlare di sé il grande pubblico? Quella realizzata nel 2017, in occasione dei tumulti che scoppiarono in Piazza San Carlo a Torino durante la visione della finale tra Juve e Barcellona in Champion’s League, nei quali perse la vita anche una ragazzina di nome Erika. Rebor ne rimase sconvolto: «Erano presenti anche dei miei amici lì. Potevo esserci anche io. Mi son chiesto quanto fosse facile esserci un momento e quello dopo no. Così mi sono recato sul luogo della tragedia e ho creato un’installazione rosa: uno pneumatico di un camion che schiaccia i resti di un uomo, lasciando solo i vestiti, e accanto una coppa. Lo feci per ricordare Erika e per ricordarci quanto la paura incontrollata possa dar vita a immani tragedie».
Fu in quell’istante che Marco capì di aver qualcosa da dire e che poteva essere ascoltato. «Sì, perché che avessi qualcosa da dire lo capii qualche anno prima, quando mi venne diagnosticata la dislessia».
Marco lo scopre tardi, solo in seconda superiore: «Ho passato tutte le scuole dell’obbligo a fare moltissima fatica nell’apprendere e nell’esprimermi. Le parole mi erano ostiche, nemiche. Odiavo persino leggere, perché comportava uno sforzo che poi non veniva riconosciuto nei risultati. Mi sentivo fuori dal mondo, di sicuro indietro rispetto ai miei coetanei. Ho sofferto tantissimo.
Una volta diagnosticata, non cambiò molto poiché qualche professore metteva in dubbio la mia difficoltà e non mi faceva utilizzare i sistemi compensativi previsti per l’apprendimento di una persona dislessica».
Fino a che Marco non conosce il professore di recupero di matematica e fisica: «Un giorno mi sfidò e mi disse: ora ti metterò una matita in equilibrio sulla punta di un ago, vuoi vedere? Gli risposi che non era possibile. E invece, lo fece davvero: prese una bottiglia, infilò nel collo un tappo di sughero nel quale infilzò un ago e grazie a un gioco di equilibri con delle forchette, riuscì davvero a far restare in bilico la matita. Con quell’installazione, mi insegnò che nella vita se trovi un tuo equilibrio, puoi fare anche l’impossibile».
All’Accademia di Belle Arti di Torino capisce definitivamente la sua strada. Ma l’illuminazione l’aveva avuta già: «È stata la dislessia a indicarmela: quello che per gli altri era scontato, io dovevo sudarmelo il doppio. È nella sofferenza che ho capito che con l’arte potevo esprimere ciò che avevo dentro. E non avevo bisogno di parole».
Comincia a fare graffiti in giro per la città: «Una street art che dà sfogo alla ribellione, alla trasgressione, al mistero… Perfetta per il me adolescente, anche un po’ incazzato. L’arte ha risolto per me e in me molte cose».
Risolvere dei nodi gli permette di far pace anche con le parole: «Ho iniziato a leggere tantissimo, e non ho più smesso. Oggi leggo anche dieci libri al mese. E grazie alle storie raccontate da terzi, io unisco i puntini della mia vita, con riconoscenza».
Puntini che oggi l’hanno portato a essere uno degli street artist emergenti più promettenti del panorama italiano: non a caso, si è aggiudicato il primo posto nella sezione street art della Biennale di Venezia, con l’opera Rivelazione digitale, che gli ha permesso di esporla al Padiglione Venezia in occasione dell’inaugurazione della manifestazione internazionale.
«Una soddisfazione grandissima, una vittoria. Ma per me una situazione anche fin troppo mondana. Infatti, attendevo sempre il finire della giornata, quando verso chiusura, potevo andare al laghetto adiacente al mio padiglione e restare fino al tramonto, in compagnia del gracidare delle rane e dei cerchi concentrici che disegnavano sul pelo dell’acqua».
Biennale di Venezia, punto di arrivo o di partenza? «Dopo il premio ricevuto a Venezia è come se avessi appena iniziato: un viaggio che sarà ricco di avventura. E per questo ringrazio sempre la dislessia, che mi ha “donato” la scarsa memoria: se all’inizio vivevo questa cosa come un deficit, oggi ringrazio. È un dono non ricordare, quindi non fossilizzarsi o non crogiolarsi troppo sul passato, ma rimanere nel qui e ora, nell’impermanenza.
Del resto, nulla resta: un magnifico esempio della realtà in cui viviamo sono le stories di Instagram, durano 15 secondi l’una, per 24 ore, e poi puff!, non esistono più. Così anche gli istanti che viviamo: ha senso ancorarsi a ciò che già è storia? Se non lasciamo andare il vecchio - e il vecchio è già un attimo fa -, non possiamo far spazio al vuoto. E il vuoto è creatività».
Una consapevolezza, quella di Rebor, che non appartiene forse all’età anagrafica che ha: «La fugacità stimola la consapevolezza: se ci rendessimo conto che tutto muore istante dopo istante - anche noi -, allora vivremmo con più intensità».
«Artista gentile» è stato definito, da chi è nell’ambiente e anche da chi non lo è: «Credo molto nella gentilezza: mi ha aperto molte porte, e le ho spinte sempre col sorriso. E poi credo molto nella cooperazione: da soli si va più veloci, è vero, ma insieme si va più lontano».
Oggi a cosa o a chi è grato Rebor? «Ringrazio la mia famiglia, innanzitutto. Poi i critici d'arte e i giornalisti, come Filippo Mollea Ceirano e Giorgio Bonomi, che mi hanno aiutato e curato la mia prima mostra personale a Milano nel 2022; e Nicolas Ballario, con il quale ci siamo conosciuti durante il lockdown: in quel periodo avevo creato l'opera Alla ricerca di un riparo e dopo avermi fatto un’intervista andata in onda su Sky Arte ha deciso di inserirmi nella mostra Alem de 2020 Arte Italiana na pandemia presso il Museo MAC di San Paolo in Brasile, da lui curata, insieme a Teresa Emanuele. E la MA-EC Gallery di Milano, che mi rappresenta.
Infine, dico grazie alla dislessia, che mi ha insegnato a danzare intorno alle difficoltà: credo a ragion veduta di poter dire che conosco bene la resilienza. Ma non mi sono mai spezzato: è una buona opportunità, la fatica».
Ma ci può svelare che significa Rebor? «Non ancora, tra qualche mese potrò farlo. Per ora… mistero». E sorride, con una risata argentina. Come la sua personalità.
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