Antonella Lattanzi: «La maternità perfetta non esiste. E io voglio raccontarlo»

Un cancello rosso e fuori il vuoto; una bambina scomparsa; una madre che vorrebbe essere perfetta ma che non lo è; un passato che torna sempre. «Questo giorno che incombe» è un thriller che tiene il lettore in agguato, e che - siamo sicuri - farà tanta strada. L'intervista
Antonella Lattanzi racconta «Questo giorno che incombe» l'intervista

Antonella Lattanzi (Bari, classe 1979)è passata da essere una promessa della letteratura italiana a una certezza assoluta. I suoi ultimi due romanzi hanno come protagoniste donne: madri e mogli, in costante pericolo. Il male aleggia sulle storie, acquattato e silente, potenziale, assoluto. La paura si assottiglia tra le pagine, tiene il lettore in agguato. In Questo giorno che incombe (HarperCollins) la protagonista è Francesca, madre di due bimbe piccole, arrivata a Roma per seguire le aspirazioni del marito, Massimo. Ad attenderli c’è una casa nuova in un condominio che si chiama Giardino di Roma; oltre un cancello rosso ci sono moderne palazzine popolate da vicini sorridenti, gentili, lieti. Francesca si lascia dietro una vita frenetica da art director, aspira a scrivere un libro illustrato per ragazzi e immagina più tempo con le sue figlie. Nella nuova vita si condensa il sogno di una maternità più piena, di un amore da abbracciare a due mani, lontana dalla frenesia milanese. Eppure, da subito, tutto comincia incrinarsi. La paura è in agguato e i magnifici vicini, cominciano ad apparire come ombre sinistre, sembrano la terrificante carrellata di Rosemery’s baby (Roman Polansky). Il marito è sempre più assente e lei comincia a subire vuoti di memoria, scatti di nervi, le pare che la casa le parli. Tutto intorno a lei, comincia a precipitare, finché la bimba del condominio, sparisce, ingoiata nel buio.

Nel prologo del libro lei spiega che una storia simile a quella che racconta, era avvenuta nel condominio, dove viveva da piccola, a Bari. Una vicenda che i suoi genitori le hanno tenuto taciuta fino ai diciotto anni. Quanto ha pesato “questo segreto” nel desiderio di rielaborarla questa storia?«Molto. Io e mia sorella siamo cresciute in un condominio dove sapevamo che dovevamo stare attente, tenere alta la guardia. Eppure non era chiaro perché, i nostri genitori ci hanno cresciute in una clima di protezione, cercando di tenerci distanti da quella brutta storia. Quando mio padre, all’età di diciotto anni mi ha spiegato che era sparita una bambina, è come se tutto fosse riemerso. Ero già andata via da Bari e sono tornata con la mente alla mia infanzia, alle cose belle ma anche a quel clima “strano”. Lo sguardo sui ricordi è cambiato e ho cominciato a sentire il desiderio di raccontarla quella vicenda, rievocare quel segreto. Volevo strappare il muro del silenzio».

Perché non ha ambientato la storia a Bari? e perché ha scelto Giardino di Roma? «Avevo bisogno di una distanza, dovevo allontanarmi dalla realtà. Giardino di Roma è un comprensorio borghese, residenziale ma non eccessivamente costoso. È lontano dal centro. Distante. Un luogo come quello può suscitare un senso di isolamento, proprio come accade a Francesca. Quando comincia ad avere dei dubbi sulle persone che la circondano, inizia a sentire il peso della solitudine. La morsa dell’isolamento. E non ha scampo, fuori da quel cancello, c’è il nulla. Il vuoto».

Lei racconta la maternità anche nel suo lato oscuro, Francesca ha un’idea precisa di come dovrebbe essere una madre. Comprensiva, accogliente, sempre presente, eppure delle volte non è così… il senso di colpa, il non sentirsi adeguata, esplodono. Fino a schiacciarla.«Ci interroghiamo sull’essere madre da quando nasciamo. Cresciamo con un idea fiabesca della maternità che spesso non coincide con la realtà. Quando Francesca comincia a vacillare, quando capisce che le sue aspettative vengono smentite dal quotidiano, le manca un appiglio, una rete. Il suo sguardo su sé stessa è giudicante, non riesce a essere la madre che vorrebbe e questo crea un cortocircuito, il buio che ha dentro comincia ad emergere, i problemi sepolti, deflagrano. Un coro di voci nella sua testa si agita, voci ossessive che insistono sul pensiero di una maternità perfetta. Ma la maternità perfetta non esiste e io volevo raccontare questo aspetto, per avvicinarmi a tutte quelle donne che sono attraversate dagli stessi sentimenti, dalla fragilità, dalla paura di non essere all’altezza».

Tra i personaggi più interessanti del libro, c’è senz’altro la casa. La casa parla, si arrabbia, consiglia, a volte è anche ironica. Come è nata l’idea di darle una voce?«Ho cominciato a scrivere questo romanzo nel 2017.Ho fatto un grande lavoro di preparazione, intessuto una trama complicata. Un thriller che doveva essere impeccabile. Poi, quando mi sono messa a scrivere, nella prima scena in cui Francesca entra in casa, la casa le dà il benvenuto. È stata un’idea nata in scrittura, non era prevista. Ho cominciato fisicamente a vederla, fino a farla diventare un vero e proprio personaggio. Ho camminato parallela alla sua crescita, chiedendomi io stessa se la casa fosse una sponda, una nemica, un punto di vista onnisciente. È il personaggio che amo di più del libro, e rispecchia il pensiero che i luoghi hanno una valenza su di noi: se stiamo male tutto sembra brutto o diversamente bello. I luoghi possono rappresentare il paradiso, come l’inferno».

Senza rivelare nulla diciamo che all’interno della storia, nasce una passione, un amore molto intenso…«È la prima volta che racconto la nascita di un amore, volevo far innamorare due persone, opporre una forza vitale al male. L’amore sprigiona delle energie fortissime, il desiderio è intenso. Mi sono concentrata sulla fisicità, il richiamo del corpo, la tentazione: tutti elementi che si contrappongono in maniera netta al senso di perdita, la paura, lo sgomento. Il desiderio rappresenta un’altra frattura importante della narrazione. Resistergli è impervio…».

In esergo al libro c’è una citazione di Stephen King. Lei, con questo libro sta consolidando un certo tipo di letteratura. Occupando una posizione che nessuna donna in Italia, occupa.«I miei genitori sono due professori, io e mia sorella siamo cresciute leggendo i grandi classici. Ma ricordo perfettamente che quando avevo 12 anni, in un supermercato, ho trovato una copia di Misery e l’ho subito presa. O lei ha preso, me? (ride). Mia madre ha cercato di dissuadermi ma non c’è stato niente da fare. E da quel momento, ho divorato Stephen King e Shirley Jackson. Da ragazzina scrivevo racconti horror, splatter... Ero travolta da quel tipo di narrazione. Quello che davvero mi affascina è la capacità di raccontare il perturbante. Il male come soprannaturale, il male che esiste dentro di noi. Qual è la linea di confine? Shining (il romanzo, ndr) in una prima lettura sembra un horror ma è soprattutto la metafora di un uomo divorato dai suoi demoni che sacrifica sé stesso per amore di suo figlio. Una storia di una potenza assoluta».

Questo giorno che incombe verrà nominato al premio Strega?«Sì. E sono immensamente felice».

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