C’è una fine per tutto, ma non per Giorgio Gaber. Il docufilm sul Signor G è un caso cinematografico

Io, noi e Gaber, scritto e diretto da Riccardo Milani è uscito nelle sale per soli 3 giorni ed stato in grado di raccogliere più di 50mila spettatori
giorgio gaber

Giorgio Gaber: il cantautore che «non finisce mai di dire quello che deve dire»

C’è un uomo solo sopra un palco. Canta, si dimena e suda come un matto. Si spoglia senza remore, fino a restare nudo di fronte a se stesso e al suo pubblico, ma nel farlo sveste anche tutti coloro che lo stanno ascoltando. E la cosa ancor più straordinaria, è che non smette di farlo nemmeno ora, a 20 anni di distanza dalla sua scomparsa. Questo era ed è Giorgio Gaber, uno dei più grandi cantautori, intellettuali e artisti del nostro tempo, perché la sua opera - come da definizione di un vero classico - «non finisce mai di dire quello che deve dire».

Giorgio Gaber

A ricordarcelo è uno splendido docufilm** Io, noi e Gaber**, scritto e diretto da Riccardo Milani. Un caso cinematografico: perché, uscito nelle sale per soli 3 giorni, è stato in grado di raccogliere più di 50mila spettatori e costringere, quindi, i distributori a prolungare la sua presenza al cinema nel weekend.

Il tutto grazie a un’opera che ripercorre una storia straordinaria e unica, da film appunto. A partire da uno strappo clamoroso. Negli anni 60 Gaber infatti è cantante di successo, conduttore televisivo, assoluta celebrità del piccolo schermo tra le partecipazioni a Sanremo e le nozze da rotocalco con Ombretta Colli. Ma, agli inizi degli anni Settanta, l’artista milanese (nato nel 1939 e morto nel 2003) fa una scelta che spiazza tutti.

Giorgio Gaber con la figlia Dalia e Ombretta Colli

«In quel periodo - raccontava lo stesso artista - andai a prendere Ombretta alla Statale di Milano con la mia macchina. Una macchina da cantante: una Jaguar. La sensazione che provai mi mise a disagio e mi sconvolse: non gliene fregava a nessuno lì, all’Università, che io avessi la Jaguar. Anzi, volevano proprio essere diversi da me». Quel “rifiuto” autentico, figlio del 68, lo affascina e lo cambia per sempre, insieme alle difficoltà crescenti a digerire le “regole” della tv. Da questa insofferenza il cantante scopre il teatro (grazie anche a una folgorante tournée con Mina), come luogo d’esibizione più autentico e privo di mediazioni, ma certamente più ostico, dove la canzone si intreccia ad appassionati monologhi. «L’unico modo per servire il pubblico è andargli contro», è il commento di Jovanotti a Milani su questo folle salto. Nasce così il suo “teatro canzone”, ma soprattutto nasce Il Signor G.

Giorgio Gaber con la figlia Dalia

Basterebbe questo per reggere un biopic sull’artista. Eppure questo è solo l’inizio.

Perché da qui Milani, attraverso un montaggio curato e appassionato di stralci dei suoi spettacoli e testimonianze (da Morandi a Bisio, passando per Fossati, Fazio e Bersani, fino alla figlia Dalia e agli amici di una vita), ripercorre l’evoluzione di un’artista mai scontato. Musicista sopraffino e di una fisicità che rende la parola visibile, ma in lotta costante con il conformismo di qualunque razza e specie, capace di un'ironia violenta e disarmante, in primis su se stesso, perché alla disperata ricerca di “un gesto naturale” tra corpo e mente.

«È più semplice far finta di essere sani e nel dubbio comprarsi una moto», ricorda il giovane attore Francesco Centorame, celebre volto di SKAM e una delle voci più originali del docu.

Un viaggio che va dal sociale all’esistenzialismo. Dove Gaber riesce a fare incazzare tutti, insieme a uno straordinario compagno di scrittura sempre al suo fianco, Sandro Luporini. Comunista autentico, rude, che “picchia” con i suoi testi e la parola, senza il quale il Signor G non sarebbe mai stato lo stesso e forse non sarebbe mai esistito.

Giorgio Gaber

Sono proprio le loro interminabili chiacchierate pomeridiane a Viareggio a dare vita alle provocazioni di Gaber più violente e all’avanguardia: la necessità di un’idea tanto concreta «da poter essere mangiata», la denuncia dell’omologazione nascosta anche dietro le maggiori trasgressioni «fatte di barbe e di kimoni», la rottura totale con quella “razza” (negli anni di piombo!) e con la massa. Il grido viscerale di «Quando moda è moda» gli porta contestazioni fuori dai teatri e uno scontro che diviene fisico, ma che resta - ancora oggi - un calcio sui denti a qualunque forma di conformismo, anche il più rivoluzionario.

Perché Gaber e Luporini smontano tutto, la comunità e l’individuo, con il dubbio sempre al centro. Dall’abbandono al consumismo più sfrenato, dove è l’uomo ad essere scelto dagli oggetti e non il contrario («Non è vero che le ideologie sono crollate con i muri, ha vinto una: quella del mercato»); fino all’illusione di una “libertà obbligatoria”, persino nei sentimenti. Non a caso, i due scrivono forse la più bella canzone, non d’amore ma sull’amore, di sempre: Il dilemma (ascoltare per credere). Fino all’individuo del nuovo millennio, al suo ego, alle sue maschere, alla sua falsa coscienza, priva di un qualunque senso di aggregazione «perché ormai il sogno si era rattrappito».

A questo affascinante percorso, durato trent’anni (una malattia costringe Gaber ad abbandonare il teatro nel 2000), il pubblico è chiamato ad assistere, non come destinatario, ma come interlocutore. Il Signor G apre ferite - oggi come allora - che lo spettatore non sa nemmeno di avere, con l’immediatezza dell’ironia e la profondità di chi sa cogliere le le frizioni più celate. Gaber spoglia la propria coscienza ma, nel farlo - appunto - sveste anche quella di chi lo ascolta. La sua riflessione origina una poesia nella quale si concepisce la sconfitta, mai la rassegnazione, perché la fiducia nelle risorse dell’uomo è irrinunciabile. Perché «C’è una fine per tutto. E non è detto che sia sempre la morte».

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