la recensione

Ad Argylle manca l'unica cosa che poteva salvarlo: il divertimento

Il film di Matthew Vaughn esce oggi nelle sale e tradisce il sogno hollywoodiano di cambiare solo per finta
Ad Argylle manca l'unica cosa che poteva salvarlo il divertimento

Quando parte Argylle più che un film di Matthew Vaughn sembra la parodia di un film di Matthew Vaughn. Sembra cioè fare il verso a Kingsman, con quel misto di colori saturi, computer grafica per le scene d’azione, personaggi dai tratti esagerati come in un fumetto che però nessuno ha mai disegnato. Bastano 5 minuti di quella scena d’apertura per sperare che arrivi qualcuno a dire che stiamo scherzando, che non è questo il film, che non sarà così, che è una scena di sogno o un film nel film. C’è Henry Cavill con il taglio di capelli di Schwarzenegger in Danko e un abito da sgherro della Spectre degli anni ‘60 che insieme a John Cena con camicia hawaiana cerca di fermare Dua Lipa in abito con spacco, spietata killer di una Grecia fintissima. E quando (dopo parecchi minuti) si scopre che in effetti non è quello il film, che si tratta della visualizzazione delle pagine di un libro letto dalla protagonista, si può tirare un sospiro di sollievo effimero. Perché poi tutto il resto di Argylle sarà un cercare di arrivare a essere come quella scena iniziale. E alla fine purtroppo ci riuscirà.

È chiaro fin dall’inizio che Argylle non vuole essere serio, si vuole divertire e ci vuole divertire, ma sembra non sapere che per divertirsi non basta fare gli scemi, occorre anche sapersi divertire. La sua è la storia di una scrittrice di romanzi di spionaggio così brava da riuscire in molti casi a prevedere nei suoi libri veri eventi geopolitici o snodi dello spionaggio mondiale. Il mondo delle spie se ne accorge e decide di rapirla per capire come faccia, che informazioni abbia che loro non possiedono. Se ci sono spie cattive, riunite come sempre in un’associazione, ci sono anche spie buone. Le prime si muovono in gruppo con fare ingrugnito e vestiti di nero, la seconda si muove da sola, è Sam Rockwell, ha un fare simpatico e vuole salvare la scrittrice interpretata da Bryce Dallas Howard (sempre più truccata e vestita per essere la donna media americana).

Questa grande storia di intrigo internazionale, viaggi, sparatorie, segreti, codici e grandi passati da scoprire non ha nessun gioco di gambe, le mancano quell’agilità e ironia necessarie per saltare da una rissa molto tecnica, a una scena d’azione in corsa fino a un dialogo scoppiettante pieno di ironia. Niente di Argylle ha la verve che dovrebbe servire a contaminare l’eccitazione da azione con il divertimento dei caratteri. Soprattutto il film sbaglia i due protagonisti. Sia Bryce Dallas Howard, donna comune stranamente a suo agio in un intrigo pazzesco, che Sam Rockwell, spia stropicciata, efficiente ma non cool né raffinata, sono caratteri dimenticabili. Vorrebbero avere personalità nette e in grado di affascinare ma non ce l’hanno mai, vorrebbero essere originali, ma non lo sono. Il film li tratta come titani, come se fossero personaggioni, ma non lo sono. Questo gap tra ciò che il film pensa di loro e ciò che è evidente agli spettatori a lungo andare crea un certo imbarazzo.

La trama intrecciata fa passare sullo schermo una quantità impressionante di luoghi comuni dello spionaggio classico, dalla memoria cancellata, al messaggio cifrato da decriptare, dal controllo da remoto delle persone al tradimento, l’associazione internazionale maligna, le spie deviate, il conto alla rovescia…. E tutto dovrebbe avere la capacità di muoversi tra le esagerazioni dei romanzi scritti dalla protagonista e una specie di strano realismo della sua realtà. Addirittura a un certo punto il film sembra affermare che la creatività sia qualcosa di così potente da riuscire a modificare la realtà, che gli scrittori e più in generale i narratori di storie siano persone potenti più delle spie per via della loro conoscenza e del loro intuito. Più avanti si rimangerà anche questa vaga idea originale, scegliendo per l’ennesima volta la facile strada della banalità.

L’unica vera realtà in questo pasticcio non divertente, che non intrattiene ma che in compenso è un bell’esempio di pessimi fondali in computer grafica e pessimi effetti visivi, è come non volendolo esprima il desiderio hollywoodiano definitivo di questi anni. Da un certo punto in avanti infatti Bryce Dallas Howard, la scrittrice, vede se stessa come il protagonista dei suoi libri, Henry Cavill, cioè come un’eroina d’azione. Rivede quel che lei fa come se lo facesse lui: uomo nella sua finzione e donna nella realtà. Li vediamo fare le stesse cose, come se ciò che nello stereotipo è il ruolo dell’uomo, in questo film diventasse prerogativa di una donna. Abbiamo visto come il cinema americano nel considerare di più i personaggi femminili stia facendo esattamente questo: scambiare uomini con donne senza però modificare il film intorno a loro, come se il cambio di sesso a lungo auspicato non dovesse implicare anche un cambio di tutto il resto e potesse limitarsi a una diversa scelta di casting.