Marvel cinematic universe

Black Panther: Wakanda Forever non è il tipico film Marvel

Il fulcro del sequel firmato dal regista Ryan Coogler è il lutto, che rallenta il ritmo della pellicola ma la rende più significativa
Una scena di Black Panther Wakanda Forever
Una scena di Black Panther: Wakanda ForeverMarvel Studios

L'uscita in sala del primo Black Panther ha rappresentato un fenomeno popolar-culturale senza precedenti. L'impatto, immediato e duraturo, è stato strabiliante. Negli Stati Uniti, in particolare, il fatto che il film sia stato prodotto durante gli anni della presidenza di Donald Trump ha dato al suo messaggio una carica speciale. Era una fase storica distopica, durante la quale la vita dei neri era tanto precaria da esigere la messa in scena di supereroi di colore. Il cinecomic su Pantera nera è stato un trionfo triplo: commerciale, critico e culturale. 

Re T'Challa è un eroe fatto su misura per un tempo nuovo e incerto. Chadwick Boseman, che non era nuovo a ruoli di grande spessore, ha portato dignità e carisma. Insieme a lui, un cast di supporto composto da star di colore del calibro di Lupita Nyong'o e Michael B. Jordan. Black Panther era graffiante e abbastanza intelligente da non farsi fagocitare da un'industria – quella dello show business americano – affamata di colori e significati. Grazie al regista Ryan Coogler e al co-sceneggiatore Joe Robert Cole, il film non si è limitato al miracolo di ottenere un grande riconoscimento, ma ha anche rappresento un progresso autentico. Ci ha parlato e noi abbiamo risposto, aprendo nuove strade alla rappresentazione aprivano delle comunità nere.

Poi, però, è arrivata la morte di Boseman, avvenuta nel 2020 per un cancro al colon. I franchise si basano sul potere delle star; senza Boseman, una delle figure più brillanti e promettenti della Marvel, Black Panther: Wakanda Forever è stata tormentata dalla sua assenza e avvolta da un cordoglio che non può essere ignorato. Raramente i film e le serie del Marvel cinematic universe integrano l'esperienza del lutto con un'attenzione così incisiva (WandaVision ci è andata vicino nella sua rappresentazione non convenzionale del dolore per la morte di un compagna e delle sue conseguenze psicologiche). Inquadrare Wakanda Forever è complicato: esito a definirlo un nuovo tipo di blockbuster dedicato ai supereroi – non ha reinventato completamente il genere – ma ci si avvicina. Coogler ha dotato il suo sequel di un nuovo vocabolario, che attinge sia alla perdita che al trionfo. Il dolore è la sua lingua madre.

La trama

Il re è morto e gli occhi del mondo sono di nuovo puntati sul Wakanda. La regina Ramonda (Angela Bassett) è salita al trono e, nell'anno trascorso dalla morte del figlio, ha fatto del suo meglio per mantenere la fittizia nazione africana in una posizione di potenza. Wakanda è l'unica nazione a possedere una delle due varianti conosciute di vibranio – il minerale alieno usato per creare armi e tecnologie all'avanguardia – e si rifiuta di condividere le sue risorse con gli alleati (in una scena all'inizio del film, alcuni soldati francesi tentano di rubarne un po' e vengono rapidamente sopraffatti dalle protettrici del paese, la Dora Milaje). Siccome l'avidità è la causa di ogni conflitto nella storia, Cooler e Cole la usano come punto di partenza del film. Il governo degli Stati Uniti avvia un'operazione di ricerca di altre riserve di vibranio nell'oceano Atlantico, ma viene misteriosamente ostacolato da una potenza sconosciuta: il popolo di Talokan, un impero sottomarino che ospita l'unico deposito del metallo sulla Terra.

Namor (Tenoch Huerta Mejía), il leader di questa civiltà, è deciso a mantenere segreta l'esistenza di Talokan. Ha superpoteri da mutante – forza sovrumana, rigenerazione acquatica e volo (grazie alle ali sulle caviglie) – e comanda la sua nazione in modo meticoloso ed energico. La corsa al vibranio minaccia di esporre il suo utopico mondo subacqueo, così Namor escogita un piano per fermarla: uccidere la geniale scienziata che ha costruito il dispositivo di tracciamento del vibranio (Riri Williams, anche nota nell'Mcu come Ironheart) e schierarsi con il Wakanda contro il mondo della superficie. Tuttavia, il Wakanda rifiuta la proposta, e le due nazioni si ritrovano sull'orlo di una guerra quasi certa.

Una guerra che, a quanto pare, non è convincente come i sentimenti che la innescano: l'implacabile brama del governo americano per il primato globale, la rabbia accecante che Shuri (Letitia Wright) prova per la perdita del fratello e il modo in cui questa la spinge all'azione, la malvagità di Namor (se così si può definire, visto che in realtà è un lato del personaggio che radici più profonde e umane). Quest'ultimo segue il solco degli classici antieroi del Mcu, come Wanda Maximoff. Namor non è del tutto ingiustificato nella sua ira: è il discendente di una tribù meso-americana del sedicesimo secolo, fuggita dalla schiavitù e costretta a trovare rifugio sott'acqua. Il suo peso morale è consistente.

Nel sequel sono presenti tutte le caratteristiche dell'iconografia del Black Panther originale. Dopo i campi color smeraldo e i mercati brulicanti del Wakanda, veniamo introdotti all'eden acquatico di Namor. Quella creata dalla production designer Hannah Beachler e dalla costumista Ruth Carter (che avevano già lavorato al primo film) è una meraviglia per gli occhi ispirata alla cultura Maya: l'abbigliamento, gli accessori e l'architettura sono tutti infarciti di dettagli indigeni di grande fascino. A voler avanzare una critica, il film non concede allo spettatore più tempo per vagare per la città sottomarina e conoscere meglio la sua gente e la sua cultura.

Il dolore al centro

Spesso il trauma si cristallizza al suo apice e pertanto richiede di soffermarsi, di fare il punto sulla portata di quanto accaduto, per quanto provochi un dolore lancinante. Ramonda e Shuri fanno del loro meglio per affrontare un lutto inimmaginabile e per conservare il ricordo di ciò che hanno perso. Tutto questo è in aperto conflitto con le logiche narrative che sottendono il genere dei cinecomic. I film di supereroi richiedono slancio, movimento, azione. Si sfogliano come un fumetto, riquadro dopo riquadro, senza mai soffermarsi a lungo su una scena prima di passare a quella successiva. Il dolore esige esattamente il contrario. Vuole che ci fermiamo, che rallentiamo. È qui che Wakanda Forever manifesta la natura del suo conflitto: ha difficoltà a decidere che cosa provare, su quale emozione soffermarsi. Forse, però, è proprio questa contraddizione l'aspetto più verace e onesto del film. Che non è così pulito, anzi, è scomposto e, di conseguenza, vulnerabile.

L'aspetto fondamentale che rende Wakanda Forever un cinecomic Marvel unico nel suo genere è quindi che la pellicola usa il dolore come fulcro. È una componente che non si può ignorare in un film come questo. Non si può far finta che quel dolore che sembra non andarsene mai non esista. Bisogna girarci intorno e poi affrontarlo di petto. Grazie a quel lutto che si materializza magnificamente in un'opera come Wakanda Forever possiamo ammirare donne nere capaci e premurose – madri, sorelle e amiche – che fanno uso del dolore e non lasciano che questo si serva di loro. Anche nelle utopie afrofuturiste c'è un dato di fatto ostinatamente persistente nella vita delle persone di colore: nemmeno i supereroi possono sconfiggere la morte.

E quando non si dimostrano invincibili, cosa succede? Quelli che restano trovano un modo per combattere, per guarire. È una storia antica e tragicamente realistica, che probabilmente avete già sentito. È una storia che non perde mai di significato.

Questo articolo è comparso originariamente su Wired US.