Le paludi rischiano di annegare

Uno studio trentennale mette in evidenza come l'innalzamento dei mari minacci la sopravvivenza della vegetazione nelle zone umide
Aree paludose lungo il fiume Blackwater in Maryland
Aree paludose lungo il fiume Blackwater, in MarylandWestend61/Getty Images

Lo Schoenoplectus americanus, una pianta palustre molto diffusa nel continente americano, si trova ad affrontare un problema esistenziale: ha scelto di vivere in un luogo dove rischia sempre di annegare.

Come tutte le piante, anche lo Schoenoplectus americanus ha bisogno di ossigeno per produrre energia. La soluzione più ovvia sarebbe quella di protendere i suoi germogli verso il cielo in modo che aspirino ossigeno come cannucce per portarlo poi alle radici. Questa pianta però ricorre anche a una strategia più insolita: far alzare il terreno su cui cresce. Lo Schoenoplectus americanus sviluppa le sue radici in prossimità della superficie, dove intrappolano i sedimenti e il fango che confluiscono nella palude. In questo modo, l'intero ecosistema si alza leggermente e la pianta non annega.

"Spesso li definiamo ingegneri dell'ecosistema – racconta Pat Megonigal, un ecologo che dirige la Global Change Research Wetland dello Smithsonian e studia le piante –. Se l'acqua diventa più profonda, hanno la capacità di sollevarsi. Ed è esattamente ciò che fanno da quattromila anni in questa palude".

Per molto tempo, i ricercatori che si occupano delle zone umide si sono chiesti se questa abilità potesse aiutare le piante a sfuggire ai cambiamenti climatici. Con l'innalzamento del livello del mare, che porta tempeste più violente e frequenti, il rischio che le piante vengano inondate cresce. Ma l'aumento dei livelli di anidride carbonica (CO2) nell'atmosfera rappresenta anche un vantaggio per quanto riguarda la loro capacità di innalzare il suolo, garantendo più “carburante” per la fotosintesi e aiutando le piante a costruire radici più grandi. Per trent'anni, Megonigal e i suoi predecessori hanno studiato questo processo in una palude del Maryland, nella baia di Chesapeake. È una sfida tra l'innalzamento del mare e la crescita delle piante, due forze con un'origine comune: la tendenza dell'uomo a bruciare combustibili fossili, che aumentano il quantitativo di CO2  nell'aria. A questo punto, però, il risultato dello scontro sta diventando chiaro: le zone umide stanno perdendo.

Lo studio dello Smithsonian

Queste conclusioni, pubblicate la scorsa settimana su Science Advances, stanno mettendo in discussione alcune delle ipotesi più ottimistiche sulle possibilità di adattamento delle zone costiere rispetto all'innalzamento dei mari. Le zone umide sono ecosistemi importanti, in quanto mediano il flusso di nutrienti tra la terra e il mare. Svolgono un ruolo fondamentale anche per lo stoccaggio del carbonio, che viene immagazzinato in terreni densi e ricchi di torba in concentrazioni superiori a quelle delle foreste tropicali. Il destino di queste aree è però messo in discussione a causa del cambiamento climatico. Secondo le stime, entro la fine del secolo i cambiamenti indotti dal clima potrebbero causare la perdita del venti-cinquanta per cento di questi ecosistemi. La capacità delle zone umide di sollevarsi al di sopra del livello in aumento delle acque è un fattore chiave che determinerà se saranno in grado di sopravvivere nelle zone in cui si trovano o se dovranno invece migrare verso l'interno.

"Abbiamo sempre pensato che l'aumento della CO2 avrebbe aiutato a stabilizzare le paludi, ma questo lavoro mette seriamente in discussione l'idea – spiega Matthew Kirwan, ecologo del Virginia Institute of Marine Science che studia l'evoluzione dei paesaggi costieri –. Gli esperimenti di trent'anni non hanno praticamente precedenti, e in questo caso cambiano radicalmente la nostra comprensione degli ecosistemi palustri".

Gli esperimenti sono iniziati alla fine degli anni Ottanta, quando molti scienziati erano già consapevoli del fatto che la CO2 atmosferica stesse aumentando per via dei combustibili fossili. Il destino di quel carbonio supplementare era però un interrogativo aperto. Le forze naturali avrebbero contribuito a ristabilire l'equilibrio immagazzinandolo nel suolo? In questo senso, gli studi condotti sulle serre sembravano incoraggianti. Circa il novanta per cento delle specie vegetali del mondo utilizza una forma di fotosintesi chiamata C3, che prevede una catena di reazioni chimiche limitata dalla disponibilità di carbonio. Quando hanno a disposizione una maggiore quantità di carbonio, le piante sono in grado di produrre più zuccheri e costruire steli e radici più grandi, elementi che potenzialmente contribuiscono a immagazzinare più carbonio.

All'esterno dalle serre, tuttavia, il processo è più incerto. Il cambiamento climatico non riguarda solo l'aumento dei livelli di CO2 o delle temperature. In una determinata zona, per esempio, potrebbe far sì che l'aria diventi troppo secca o troppo umida, oppure che il suolo sia troppo salato per i gusti di una pianta. Potrebbe prosciugare un fiume, interrompendo il flusso di nuove sostanze nutritive. O ancora causare tempeste più estese e portare quindi a maggiori inondazioni. Potrebbe provocare il collasso di una specie di un ecosistema, magari un impollinatore con un ruolo fondamentale, coinvolgendone così molte altre. Per una pianta la presenza di CO2 supplementare potrebbe essere positiva, a patto però che non venga uccisa prima da altri cambiamenti climatici.

Da qui, la ricerca dello Smithsonian sulle zone umide. La palude del Maryland è disseminata di camere esagonali senza copertura delle dimensioni di un minifrigo, ognuna delle quali ospita un ecosistema leggermente alterato. La prima serie di esperimenti, iniziata nel 1987, prevedeva l'immissione di aria che conteneva livelli di CO2 elevati, in linea con le concentrazioni previste per il 2100. Per le piante all'interno di questi ambienti le cose sono iniziate bene: sono cresciute più velocemente, proprio come ci si aspettava, anche se i benefici legati all'aumento di carbonio variavano di anno in anno a seconda dell'umidità e della temperatura.

L'influenza dell'innalzamento dei mari
Vedi di più
Scegli le newsletter di Wired che vuoi ricevere e iscriviti!

Ogni settimana notizie e commenti su conflitti nel mondo digitale, sostenibilità, salute, gadget o uguaglianza di genere. Ogni giorno il meglio dell'innovazione. Sono le nostre nuove newsletter: l'innovazione a portata di clic.

Arrow

Con il tempo però i benefici garantiti dalla CO2 supplementare si sono progressivamente attenuati, fino a arrestarsi. Le radici delle piante, in particolare, erano più esili di quanto avrebbero dovuto essere. Qualcosa stava andando storto. I ricercatori hanno quindi iniziato a indagare. Negli ultimi vent'anni, avevano già disseminato il paesaggio di altre camere – alcune con cavi per riscaldare il terreno, altre con quantità variabili di azoto aggiunto al suolo – nel tentativo di isolare gli effetti di questi nuovi cambiamenti ambientali. Ma quando hanno confrontato i dati delle varie zone non hanno trovato niente che riuscisse a spiegare adeguatamente il calo di entusiasmo delle piante nei confronti della CO2 supplementare. I ricercatori hanno così rivolto le loro attenzioni in direzione di un altro colpevole inaspettato: il mare. Si sono resi conto nel corso degli esperimenti il mare si era innalzato, aumentando di oltre venti centimetri nell'area dalla fine degli anni Ottanta. I ricercatori non erano partiti con l'idea di studiare l'innalzamento del livello del mare, ma le cose erano cambiate. Anche se le piante erano in grado di sopravvivere rimanendo sommerse per un certo periodo, l'ulteriore tempo trascorso sott'acqua ha probabilmente comportato un maggiore stress, limitando di conseguenza la loro crescita a dispetto dell'aumento di CO2.

In altre parole, l'aumento del carbonio è stato utile per queste piante, finché l'innalzamento del livello del mare non le ha raggiunte. Nel breve termine, le piante sono cresciute in modo più robusto, battendo sul tempo l'acqua e probabilmente consolidando il loro ruolo di serbatoi di carbonio. Sul lungo periodo, però, è sempre più probabile che il mare inghiotta l'intero ecosistema.

"Questo articolo affronta un problema che ci tormenta da tempo, ovvero che il cambiamento climatico non è non è rappresentato da un unico effetto", spiega Anna Braswell, ecologista costiera della University of Florida che non ha partecipato allo studio. I ricercatori sono impazienti di includere i nuovi dati sull'aumento della CO2 e l'innalzamento del livello del mare nei modelli relativi all'espansione e alla scomparsa delle zone umide, che spesso si basano sull'ipotesi che le piante saranno in grado di generare un maggiore innalzamento dell'ecosistema grazie all'aumento della CO2. L'ideale sarebbe replicare gli esperimenti in altre aree, su più tipi di ecosistemi nelle zone umide. Farlo rapidamente, però  non è facile: "Nessun altro ha monitorato livelli elevati di CO2 per trent'anni", dice Kirwan.

La migrazione delle zone umide

Nelle aree in cui il terreno circostante è basso e in leggera pendenza, le paludi hanno la capacità di migrare verso l'interno. È un fenomeno che si verifica soprattutto in luoghi come la baia di Chesapeake. Altrove, invece, le catene montuose scoscese che circondano le zone umide impediscono grandi movimenti. Il fattore più rilevante è però rappresentato dall'uomo, che determina se il percorso di una zona umida in movimento sarà circondato da case e fabbriche, o se invece verrà influenzato dalla presenza di dighe marittime e altre strutture pensate per contenere l'innalzamento delle maree.

Ultimamente, Megonigal ha notato che la palude al centro della sua ricerca è in difficoltà. La flora sta cambiando, perché alcune delle piante con una maggiore capacità di adattamento mettono radici nei luoghi occupati da quelle che non riescono a tenere il passo dei cambiamenti (alcune delle piante che fanno più fatica ad adattarsi ricorrono a un diverso tipo di fotosintesi, nota come C4, e non beneficiano dell'aumento di CO2). Il paesaggio sta formando ciò che gli ecologisti delle zone umide definiscono "hummock" e "hollow": un paesaggio caratterizzato da piccoli monticelli con raggruppamenti di piante alternati a fossi dove non cresce vegetazione, un segno inequivocabile di stress tra la vegetazione. Circondata da ripidi pendii, la palude non ha modo di spostarsi mentre l'area che la circonda viene lentamente inondata: "Sta avendo la meglio su un ciclo che dura da quattromila anni", dice Megonigal. L'esperimento, però, prosegue.

Questo articolo è comparso originariamente su Wired US.