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70 anni fa scoprivamo la struttura del dna: ecco come ci ha cambiato la vita

Ripercorriamo le tappe che hanno preceduto questo importante risultato e il modo in cui ha rivoluzionato il futuro della genetica con l’aiuto dello storico della medicina Andrea Grignolio
Dna 70 anni fa scoprivamo la sua struttura ecco come ci ha cambiato la vita
Dr_Microbe

La scoperta della struttura del dna ha 70 anni. Il 28 febbraio 1953 è passato alla storia come il giorno in cui un inglese e un americano entrarono in un pub e annunciarono di aver risolto un enigma su cui buona parte della comunità scientifica dell’epoca si scervellava ormai da decenni. I due uomini in questione erano naturalmente James D. Watson e Francis Crick e la scoperta a cui si riferivano riguardava nientemeno che “il segreto della vita”.

Erano più di cinquant’anni che medici, fisici e biologi si interrogavano riguardo l’esistenza e la natura dei geni. Perciò, quando i due studiosi avanzarono una teoria che contemplava un codice della vita basato su un “alfabeto” di quattro “lettere” disposte in una struttura a doppia elica (scoperta che valse loro e al fisico Maurice Wilkins il premio Nobel per la medicina nel 1962), si posero le basi per una vera e propria rivoluzione copernicana nel campo della biologia e per un cambio di paradigma che avrebbe orientato il futuro della ricerca biomedica, aprendo la strada a possibilità di intervento terapeutico fino ad allora impensabili.

I passi della scoperta

La scoperta del Dna ha 70 anni e noi ripercorriamo le principali tappe che hanno preceduto e reso possibile questo risultato e il modo in cui esso ha cambiato la storia della medicina insieme ad Andrea Grignolio, docente di storia della medicina presso l’Università Vita-Salute S. Raffaele di Milano e di bioetica presso il Cnr, Centro Interdipartimentale per l’Etica e l’Integrità nella Ricerca CID-Ethics.

All’inizio del Novecento vennero riscoperte le leggi di Mendel sull'ereditarietà dei caratteri e la comunità scientifica iniziò perciò a interrogarsi sulla natura del gene e, eventualmente, su quale fosse il suo sostrato chimico”, racconta Grignolio. “Nei primi anni del secolo scorso vennero condotti, in particolare, due importanti esperimenti che indirizzarono biologi, medici e chimici nella giusta direzione. Il primo fu quello del biologo Thomas Hunt Morgan che grazie allo studio della drosofila (il moscerino della frutta) dimostrò come i geni fossero disposti sui cromosomi; il secondo fu quello di Hermann J. Muller, che scoprì che l’esposizione ai raggi X aumentava il tasso di mutazione di alcune cellule riproduttive”.

Nonostante questo, fino all’inizio degli anni Cinquanta, ovvero pochissimo tempo prima della scoperta di Watson e Crick, ancora si discuteva per capire se i geni fossero composti dalle proteine o dagli acidi nucleici (come di fatto è, ndr). Com’era già noto allora, i “mattoni” che formano le proteine, ovvero gli aminoacidi, sono di venti tipi differenti, al contrario degli acidi nucleici, che sono costituiti dalla combinazione di sole quattro basi azotate. In altre parole, un alfabeto di venti lettere sembrava più adatto a codificare progetti di sviluppo di interi organismi complessi, rispetto a uno di quattro.

I momenti chiave

Per dirimere la questione fu rilevante l’esperimento di Avery del 1944. Il medico canadese Oswald T. Avery intervenne su alcune cellule infettate dal batterio dello pneumococco privandone alcune delle proteine, altre dei polisaccaridi, e altre del dna. Appurò quindi che fosse quest’ultimo a detenere la capacità che lui chiamò “principio trasformante”, ovvero quella di ricevere il materiale genetico proveniente dal batterio. Infatti, solo nelle cavie le cui cellule ancora contenevano dna e rna avveniva il contagio veicolato dal batterio.

Dopo pochi anni, nel 1950, il celebre biochimico austriaco Erwin Chargaff condusse alcuni esperimenti che dimostrarono che il rapporto tra le quattro basi azotate che compongono il dna fosse molto più sofisticato di quanto sembrasse. Scoprì infatti che in ogni molecola di dna il numero di basi A (Adenina) corrispondeva a quello del numero di basi T (Timina) e che il numero di basi C (Citosina) corrispondeva a quello delle basi G (Guanina), nonché che la composizione in basi del DNA variava da una specie all'altra e non era modificata in base all'età. Alcuni conclusero che le 4 basi potessero costruire un “codice” con le istruzioni necessarie per portare le informazioni genetiche”.

Parallelamente a tutte queste ricerche condotte nell’ambito della biologia, traguardi altrettanto importanti furono raggiunti grazie al lavoro dei fisici, che a partire dagli anni Trenta contribuirono a gettare le prime basi per lo studio della biologia molecolare. “Uno dei protagonisti di questo filone di studi fu il fisico austriaco Erwin Schrödinger che nel 1944 scrisse What is life, il primo best seller della biologia molecolare”, prosegue Grignolio. “In quest’opera Schrödinger ipotizzava, in maniera geniale, che il gene assomigliasse a un “cristallo aperiodico”, la cui struttura chimica doveva essere molto stabile (proprio come quella di un cristallo) ma allo stesso tempo irregolare, e che contenesse al suo interno una sorta di “codice morse” composto di pochissimi elementi di base in grado però, combinandosi, di trasmettere molte informazioni”.

La svolta (e una grossa scorrettezza)

E arriviamo così a Watson e Crick. “Negli anni Cinquanta in Inghilterra vi erano due laboratori in cui si lavorava con la spettroscopia a raggi X, una tecnologia sviluppata durante la rivoluzione industriale per analizzare i tessuti artificiali e successivamente applicata all’indagine della materia vivente”, spiega Grignolio. “Il primo era quello del King's College di Londra, dove sotto la direzione di Maurice Wilkins lavorava anche Rosalind Franklin, la chimica che per prima sarebbe riuscita a fotografare con precisione una molecola di dna; l’altro era il Cavendish laboratory dell’università di Cambridge. Fu qui che si incontrarono e iniziarono a collaborare James D. Watson, che si era da poco trasferito dal King’s College – continuando le sue ricerche di dottorato dirette dal medico e genetista italiano Salvatore Luria – e Francis Crick”.

Watson e Crick si misero al lavoro per cercare di mettere insieme, come i pezzi di un puzzle, tutti quei risultati scientifici cui abbiamo accennato e che erano stati acquisiti nel corso degli ultimi decenni in ambiti di ricerca differenti. È interessante ricordare che i due studiosi riuscirono a costruire il loro modello sulla struttura del dna senza condurre alcun esperimento. Ciò non toglie nulla alla loro genialità, che permise loro di unire tutte quelle informazioni “sparse” in un’unica teoria coerente”.

Va anche ricordato, però, che la conferma definitiva della loro teoria avvenne in seguito a una delle più famose scorrettezze ai danni di una donna nella storia della scienza. Fu infatti Wilkins a rubare a Franklin la celebre fotografia 51, in cui la chimica era riuscita a immortalare una molecola di dna di cui era possibile distinguere la struttura a doppia elica, e a mostrarla a Watson.

“La mossa di Wilkins fu certamente scorretta”, commenta Grignolio “e altrettanto sbagliato fu non riconoscere fin da subito a Franklin il dovuto merito per il suo lavoro – ciò invece avvenne solo dopo il 1968, grazie al racconto autobiografico della scoperta da parte di Watson con il suo best seller La doppia elica. Detto ciò, va comunque rimarcato che la fotografia in questione, la famosa 51, fu senza dubbio molto utile, ma comunque non essenziale alla scoperta di Watson e Crick, i quali, oltre alla foto, raccolsero e riordinarono i risultati tratti da almeno altre otto ricerche per completare quel rebus”. Nell’articolo che pubblicarono su Nature il 25 aprile del 1953 per comunicare la loro scoperta, Watson e Crick avanzarono, con una elegante frase tipica dell’understatement britannico (“Non è sfuggito alla nostra attenzione”) anche l’ipotesi che l'alternanza delle basi azotate probabilmente nascondesse la complessità dell’informazione genetica. Questo, però, fu dimostrato in seguito: fu infatti nel 1961 che i biochimici Marshall W. Nirenberg e J. Heinrich Matthaei scoprirono l’esistenza dei codoni, ovvero di quelle triplette di basi azotate che codificano i diversi aminoacidi.

Le basi per il nostro futuro

Nei decenni successivi, la scoperta del codice genetico, identico dalle drosofile sino ad Einstein, ha permesso l’esplosione della biologia molecolare e anche dell’ingegneria genetica. Quando infatti venne scoperta all’inizio degli anni Settanta l’esistenza degli enzimi di restrizione, capaci di tagliare e sostituire pezzetti di dna, si iniziò a discutere della possibilità di intervenire sul genoma umano per alterare artificialmente la trasmissione dell’informazione genetica. Per la prima volta nella storia si apriva per gli esseri umani la possibilità di modificare a proprio piacimento il piano di sviluppo di un organismo vivente e nel 1975, durante la Conferenza di Asilomar, la comunità scientifica si ritrovò per discutere i possibili pericoli e le sfide etiche che si prospettavano all’orizzonte.

Oltre ai pericoli derivanti dalle possibilità di applicazione dell’ingegneria genetica, fu presto chiaro anche il potenziale terapeutico di una tecnologia in grado di manipolare il dna.

All’epoca era già ben nota l’esistenza di quelli che il medico ottocentesco Archibald Garrod aveva definito inborn errors (“problemi congeniti”), ovvero di determinate malattie ereditarie la cui frequenza familiare non poteva essere altro che genetica”, ricorda Grignolio. “Nel 1949 la scoperta delle basi genetico-molecolari dell’anemia falciforme da parte di Linus Pauling, premio Nobel per la chimica nel 1954, lasciò intuire che l’individuazione delle cause genetiche delle malattie ereditarie avrebbe permesso, in futuro, di applicare l’ingegneria genetica a fini terapeutici per cercare di correggere a monte le mutazioni del dna associate all’insorgenza di alcune patologie.

Diverse scoperte successive confermarono questa idea che a metà anni Ottanta prese il nome di Progetto genoma umano, il cui ambizioso obiettivo era quello di mappare l’intero codice genetico degli esseri umani per cercare di individuare e di eliminare i geni difettosi e di comprendere i maccanismi di molte altre malattie, tra cui il cancro. Non a caso, con un celebre articolo del 1986 su Science, uno dei promotori del Progetto genoma umano fu l’italiano Renato Dulbecco, premio Nobel nel 1975 per gli studi sugli oncogeni.

Come sappiamo, ci sono voluti quindici anni per portare a termine la prima fase dell’impresa, ma il sequenziamento del genoma umano ha consentito, negli ultimi decenni, lo sviluppo delle più avanzate terapie geniche, cellulari e tissutali (specialmente quelle a base di cellule staminali) attualmente disponibili. Grazie ad esse è oggi possibile trattare malattie che fino a pochi anni fa erano incurabili, come molti tumori del sangue infantili e malattie genetiche, e ricostruire e rigenerare interi tessuti in pazienti in vita”.