Il caso Montanelli e i pericoli della mitizzazione

Avremmo bisogno di un approccio bilanciato nella valutazione delle persone e delle loro opere: le seconde devono senz’altro vivere di vita propria ma non possono sfuggire dall’eredità che le prime hanno scaricato loro sulle spalle

(foto: Claudio Furlan/Lapresse)

Claudio Furlan/LaPresse

Non esistono miti. Il mito è appunto una categoria narrativa, non appartiene alla storia umana. Quello che ci rimane dall’ultimo focolaio polemico su Indro Montanelli e sul suo madamato con una 12enne eritrea durante la guerra del 1935/36 in cui si arruolò volontario, è forse un’ulteriore e definitiva lezione di disincanto. Quella vernice rosa gettata sulla sua statua ai giardini pubblici che portano il suo nome a Milano dovrebbe **svegliarci dall’incantesimo **e riportarci finalmente a un approccio meglio bilanciato nella valutazione delle persone e delle loro opere. Le seconde possono e devono senz’altro vivere di vita propria, anche per le conseguenze positive che hanno eventualmente prodotto, ma non possono sfuggire dall’eredità che le prime le hanno scaricato sulle spalle.

Esistono evidentemente casi diversi. Quello di Montanelli è tuttavia ingiustificabile: già negli anni Trenta l’abuso minorile era punito dal codice penale italiano. Come dire, c’è poco da relativizzare: la contestazione – già sollevata in tv nel lontano 1972 dalla giornalista e scrittrice Elvira Banotti, anch'essa non esente da successive posizioni scivolose – non è mossa a un àscaro dell’epoca, ma a un italiano che aveva 25 anni, veniva da un’altra etica e da un’altra storia. E che non esitò ad allinearsi in modo predatorio a un mondo non suo, infilandosi negli abiti locali, perché lo trovava evidentemente vantaggioso sotto l’aspetto sessuale e dei servigi del madamato. In altre occasioni le azioni e le scelte compiute da quelli che consideriamo miti o icone possono essere state dettate da un contesto specifico, se non addirittura obbligate. Questo non significa che non debbano e possano influenzare il nostro giudizio su di essi con la serenità e la capacità di cogliere la fisionomia di un personaggio storico a 360 gradi. Senza sconti.

A volte abbiamo cioè paura di riportare alla loro mortale umanità i riferimenti assoluti che un certo modo di berci la storia, molto per pillole e aneddoti, documentari e Wikipedia oltre che contrapposte tifoserie da complottismo, sembra aver incastrato in un pantheon immutabile. A volte ricostruito a tavolino, o quasi, dopo la morte. Altre volte sbocciata autonomamente, frutto dell’ipersemplificazione, dell’ignoranza e dell’interesse di alcune parti sociali o politiche.

Così in molti giustificano oggi il fondatore del Giornale parlando di relativismo storico (che, come abbiamo visto, non poteva esistere), senza riconoscere che mai si pentì di aver acquistato una bambina per 500 lire. Oppure faticano a individuare le giuste responsabilità di Aung San Suu Kyi, la dissidente birmana premio Nobel per la pace nel 1991 alla quale perfino Amnesty International ha di recente ritirato un riconoscimento a causa della “palese* indifferenza della leader birmana di fronte alle atrocità commesse dall’esercito** e alla crescente intolleranza rispetto alla libertà di espressione*”, ora che è ai vertici del governo di Rangoon. Così come accaduto con Gandhi, icona ancora mentre era in vita e personalità senza dubbio complessa sia intimamente che per l’azione sociale: eppure il simbolo della non-violenza indiana, emblema di pace in tutto il mondo e martire del fanatismo indù, fu razzista nei confronti dei neri sudafricani negli anni che trascorse in quel Paese, fu misogino e la sua lunga battaglia non prese di fatto in considerazione l’emarginazione dei dalit, gli intoccabili in India, che al contrario esortava a non rinnegare la loro eredità culturale perché considerava il sistema delle caste come indiscutibile.

Sono evidentemente casi estremi a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri ma l’atteggiamento di mitizzazione, cioè di progressiva idealizzazione di personaggi più o meno noti del passato anche recente, tanto da emarginare lo stesso approfondimento storico , è un vizio che fa male alla cultura contemporanea e alla giustizia. E che trasforma gli uomini in dogmi.

Alla base di questa resistenza c’è evidentemente un’angosciante dose di insicurezza. Temiamo che riconoscendo i lati oscuri di queste e molte altre icone contemporanee – verrebbe da dire da Che Guevara a Steve Jobs, fatte le dovute proporzioni su mezzi, epoche e responsabilità – gli aspetti più luminosi delle loro azioni e i messaggi più potenti per cui hanno lottato (e in certi casi sono morti o hanno trascorso molti anni in prigionia) ne escano depotenziati, feriti, indeboliti. Tutto il contrario: per afferrarne meglio il senso è forse proprio il momento di rivalutarli e far fare loro i conti con le proprie azioni, scelte e omissioni. Anche quando, più modestamente rispetto agli esempi come nel caso di Montanelli, non hanno voluto farli da soli.