Sì, sì: lo so. È un trucchetto vecchio come il cucco – e nemmeno dei più sofisticati. Metti assieme un pugno di parole, componi un titolo ingaggiante, si dice oggi, e il gioco è fatto: tu, lettore, arriverai a leggere queste parole.
Il giochino mira, prosaicamente, a far sì che quel titolo sia sexy quanto basta per agganciarti, caro lettore, e così trascinarti nelle perfide lenzuola del messaggio sottostante. Se il tutto riesce – e se stai leggendo questa riga, è riuscito – il modello ha funzionato: AIDA ti ha sedotto.
AIDA è un acronimo che nessuno, dico nessuno, operi nel mondo della comunicazione commerciale, ignora. Mette assieme quattro parole concatenate in una sequenza logico-comportamentale: Attenzione, Interesse, Desiderio, Azione. È uno schema mentale, un modello se vogliamo essere eleganti, cui generazioni di pubblicitari si sono attenuti per concepire, strutturare e realizzare le loro creazioni: le inserzioni pubblicitarie.
Tutti i Grandi Fratelli, i Persuasori Occulti, i Maghi e Guru della pubblicità, questi stregoni del XX secolo, capaci di farci desiderare ogni genere di merce, di marca, di situazione di consumo, tutti, dicevamo, sono devoti ad AIDA da generazioni.
Il culto di AIDA, Dea Seduttrice, progenitrice della Dinastia dei Consumisti, ha segnato il Novecento e tuttora imprime il proprio timbro alla contemporanea società dei consumi. Ella e i suoi sacerdoti, sono riusciti a far compiere al popolo gli atti che loro desideravano compisse: desiderare, acquistare, consumare. Non c’è stato scampo per nessuno: devoto o meno alla grande Dea. E così AIDA ha fatto di noi degli avidi consumatori, dei produttori di desideri, dei generatori di frustrata insoddisfazione personale; degli individualisti onnivori di merci e messaggi, marche e simboli tribali.
Eppure. Eppure in questo sgangherato e invidioso Paese, sono venti anni che qualcosa si muove «in direzione opposta e contraria» come avrebbe detto Fabrzio De Andrè. Già, perché la pubblicità non è solo uno strumento di sostegno al commercio – e se non ci fosse commercio, ricordiamolo, non ci sarebbe produzione e, senza di essa, a che servirebbe il lavoro? Ecco il punto. La pubblicità può anche essere volta al bene comune e non solo a quello aziendale.
Pubblicità Progresso, nata nel 1971, si appresta a vivere una nuova stagione, dopo essere stata trasformata in Fondazione.
Un’esperienza magnifica, superbamente concepita e condotta per vent’anni da Alberto Contri da Ivrea. Un grande esperto di comunicazione, Presidente della Fondazione per la Comunicazione Sociale – come si chiama dal 2005 la Pubblicità Progresso – già consigliere Rai e autore di saggi di grande acume e profondità.
Pubblicità Progresso dimostra tante cose, fra le quali: che la pubblicità non è opera del demonio; che le persone, financo i pubblicitari, possono essere brava gente; che la pubblicità non funziona a farci fare ciò che desidera. Vediamo.
Non è opera del demonio. E no: nel caso di Pubblicità Progresso lo strumento serve a mandare messaggi di civiltà: quindi positivi, quindi niente demonio. Esempi: non discriminare chi ha la Sindrome di Down, cerca di stare attento al prossimo, attento alla sicurezza sul posto di lavoro, dona il tuo sangue, eccetera.
Pubblicitari brava gente. E sì: tutti coloro che lavorano alla Pubblicità Progresso lo fanno a titolo gratuito. Da chi crea le campagne a chi le ospita e veicola, nessuno prende un soldo. Ciascuno dona del suo per una comunicazione volta al bene comune.
La pubblicità non funziona. E già: se la pubblicità funzionasse davvero nel modo in cui la vulgata immagina, staremmo tutti lì a comprare in continuazione ciò che ci viene proposto. Ceteris paribus, allora, raggiunti dalla Pubblicità Progresso saremmo tutti campioni del vivere civile: non discrimineremmo le persone in base al colore della pelle, alle condizioni di salute, alla provenienza, eccetera; non ci sarebbero morti bianche; saremmo pieni di sangue donato e, chissà, forse lo esporteremmo pure.
Invece no. Semplicemente perché nessuna pubblicità, caro lettore, farà di te ciò che non sei, nessuna pubblicità prenderà la tua mano e la farà muovere. Se questo ci rallegra e solleva, nel campo dei consumi, ci rattrista in quello del vivere civile.
Buon compleanno, dunque, cara Pubblicità Progresso: abbiamo ancora bisogno di almeno altri venti anni di te.